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Spoiler – “Solisti veneti” nel prossimo Senza Filtro
Quando pensiamo al cinema e alla Venezia Euganea, nella sua odierna accezione geografica estesa, non possiamo non pensare a Carlo Mazzacurati, il solista veneto per eccellenza, fra gli autori più rappresentativi della Settima Arte nostrana e interprete di un cinema ricco di sfumature le cui storie, dal carattere marcatamente realista, lasciano spazio a caratteri spesso […]
Quando pensiamo al cinema e alla Venezia Euganea, nella sua odierna accezione geografica estesa, non possiamo non pensare a Carlo Mazzacurati, il solista veneto per eccellenza, fra gli autori più rappresentativi della Settima Arte nostrana e interprete di un cinema ricco di sfumature le cui storie, dal carattere marcatamente realista, lasciano spazio a caratteri spesso dissonanti, ma sempre e comunque rappresentativi di una regione ricca di contrasti.
Dall’analisi dello yuppismo rampante alla critica nei confronti del capitalismo, dallo sguardo sulla complessa ambiguità del vivere contemporaneo ai celebri Ritratti. Come quello dedicato a Mario Rigoni Stern, che Primo Levi definirà “uno dei più grandi scrittori italiani” (Ritratti: Mario Rigoni Stern, C. Mazzacurati, 1999); come il documentario che ritrae il poeta Andrea Zanzotto (Ritratti: Andrea Zanzotto, C. Mazzacurati, 2002) e come l’intensa conversazione tra il partigiano Luigi Meneghello e il regista Marco Paolini (Ritratti: Luigi Meneghello, C. Mazzacurati, 2002): il cinema di Mazzacurati ha raccontato come pochi le nebbie e le sfumature di un Veneto carico di contraddizioni.
E che ha ricevuto i dovuti riconoscimenti anche in patria: vincitore nel 1987 del Nastro d’argento come miglior regista esordiente e del Ciak d’oro per Notte italiana (id., C. Mazzacurati, 1987), la vicenda di un avvocato padovano in bilico fra loschi traffici lungo il delta del Po e la storia d’amore con una ragazza del Polesine, Mazzacurati ha conquistato, inoltre, il Leone d’argento e la Coppa Volpi nel 1994 per Il toro (id., C. Mazzacurati, 1994), la vicenda di due allevatori cassaintegrati che rubano Corinto, un campione taurino da un miliardo di lire, per poi rivenderlo all’Est.
Ma il connubio fra Veneto e cinema non si limita a quest’unico, seppur fondamentale autore; e il rapporto che la regione intrattiene con la Settima Arte è da sempre ricco di gradazioni e vivacità. Non tutti sanno, per esempio, che Nerone e Agrippina (id., M. Caserini, 1914), fra le principali produzioni italiane degli anni Dieci è stato girato a Verona: in un momento della storia del nostro cinema in cui l’Italia è all’avanguardia non solo nella definizione degli standard di durata delle pellicole, ma anche nell’introduzione sul mercato dei primissimi lungometraggi.
Verona, inoltre, fa da sfondo alle vicende del violoncellista di fila Niccolò Vivaldi e della bella moglie Costanza che, per assecondare un desiderio esibizionistico del marito, finisce per esibirsi nuda davanti a 20.000 spettatori dell’Arena durante l’Aida (Il merlo maschio, P. Festa Campanile, 1971); al Teatro Olimpico di Vicenza, invece, sono girate alcune sequenze di Casanova (id., L. Hallström, 2005), il bilancio di un ormai anziano Giovanni Giacomo Casanova che, in un capitolo inedito delle sue Mémoires racconta la sua unica sconfitta amorosa per mano di Francesca, una grintosa femminista ante litteram. Mentre Padova è il set principale di Gli ordini sono ordini (id., F. Giraldi, 1972), la storia della moglie di un bancario veneto che comincia a sentire la voce del suo subconscio represso. E che, inevitabilmente, spingerà la donna a lasciare casa e marito per realizzarsi in una dimensione infine indipendente.
Ma è in particolare con Venezia, che il cinema intrattiene da sempre un rapporto fatto di influenze e suggestioni. Da Morte a Venezia (id., L. Visconti, 1971), trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Thomas Mann, che racconta l’incontro al Lido fra Gustav von Aschenbach, anziano musicista spiritualmente inquieto e il bellissimo Tadzio, incarnazione dell’ideale estetico che Aschenbach ha perseguito per tutta la vita, a Pane e tulipani (id., S. Soldini, 1999), la vicenda della casalinga Rosalba che, accidentalmente “dimenticata” in un autogrill al rientro da una gita a Paestum si prende una vacanza a Venezia, trasformando la propria vita e quella di chi la incontra.
Dal viaggio di Fantozzi e colleghi nel capoluogo veneto, mesto risultato di un’intensa stagione di rivendicazioni sindacali (Fantozzi va in pensione, N. Parenti, 1988) al tragico epilogo della vicenda di Fosca che, in viaggio di nozze a Venezia con il pedissequo neo-consorte Raniero Cotti Borroni trova nel suicidio la via di fuga dalle stravaganze dell’opprimente marito (Viaggi di nozze, C. Verdoni, 1995).
https://www.youtube.com/watch?v=WJT4km-SQe4
Ma il cinema veneto è anche – e per definizione – il cinema della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, che si tiene ogni anno negli spazi della Serenissima, fra lo storico Palazzo del Cinema e il Lido di Venezia. Nata nel 1932, nell’ambito della XVIII Biennale d’arte, la Mostra prende vita grazie all’iniziativa del presidente, il conte Giuseppe Volpi di Misurata che, con lo scultore Antonio Maraini (primo consulente artistico) e con il segretario generale dell’Istituto internazionale per il cinema educativo Luciano De Feo (direttore e selezionatore) decide di dare vita a una rassegna, il cui scopo sarebbe stato quello di presentare opere di alto valore cinematografico come mezzo di espressione nel campo artistico, culturale, educativo e scientifico.
La presenza di Louis Lumière, membro del comitato d’onore e che ringrazierà pubblicamente gli organizzatori per il riconoscimento finalmente conferito al cinema come espressione estetica garantisce alla manifestazione prestigio e autorevolezza immediati. Alla prima edizione, che si svolge dal 6 al 21 agosto 1932 all’Hotel Excelsior del Lido di Venezia aderiscono numerosi Paesi, otto dei quali presentano ben trentanove film, selezionati da una commissione internazionale. Le proiezioni vengono aperte da Dr. Jekyll and Mr. Hyde (id., R. Mamoulian, 1932). Tra gli altri film in programma Grand hotel (id., E. Goulding, 1932) e Gli uomini, che mascalzoni… (id., M. Camerini, 1932), interpretato da un brillante Vittorio De Sica e che sarà annoverato fra i cult del cinema “dei telefoni bianchi”: l’espressione principale della commedia italiana degli anni Trenta, la cui terminologia rimanda al colore dei telefoni presenti nelle ambientazioni borghesi di questi film, simbolo di benessere e di status sociale elevato.
Gli uomini, che mascalzoni…, inoltre, conquisterà seguito e fama per la colonna sonora e il brano Parlami d’amore Mariù, interpretato dallo stesso De Sica, benché inizialmente scartato dalla casa di produzione Cines diventerà addirittura più celebre del film stesso.
Inoltre, durante questo embrionale primissimo anno la Mostra non prevede la presenza di un concorso, ma soltanto di un referendum tra il pubblico, che premierà Il cammino verso la vita (Putëvka v žizn′, N. V. Ekk, 1931), A me la libertà (À nous la liberté, R. Clair, 1931), Il fallo di Madelon Claudet (The sin of Madelon Claudet, E. Selwyn, 1931) e il già citato apripista Dr. Jekyll and Mr. Hyde (id., R. Mamoulian, 1932).
Nel corso della sua storia, la Mostra ha tenuto fede all’intento originario di far conoscere prodotti cinematografici di valore altissimo, intendendo il cinema come forma d’arte ma anche come specchio delle politiche culturali espresse, di volta in volta, dai diversi momenti storici e attraversando, non di rado, le conseguenti e talvolta aspre polemiche. Oggi il Leone d’oro è fra i premi cinematografici più ambiti e nell’albo dei vincitori compaiono capolavori come Ordet (id. C. T. Dreyer, 1955), Deserto rosso (id., M. Antonioni, 1964), Bella di giorno (Belle de jour, L. Buñuel, 1967) e Tre colori – Film Blu (Trois couleurs: Bleu, K. Kieslowski, 1993).
https://www.youtube.com/watch?v=EuvPD3jjlas
Fino al recentissimo Roma (id. A. Cuarón, 2018), opera ultima di Alfonso Cuarón, ritratto di una famiglia borghese in un quartiere residenziale di Città del Messico e ispirato alle due donne che hanno caratterizzato l’infanzia del regista: la giovane domestica Cleo, di origine mixteca e Donna Sofia, sua datrice di lavoro, altolocata e di discendenza spagnola.
Il compito di Cleo è quello della tuttofare e le mansioni della giovane donna spaziano dall’accudimento dei bambini alla pulizia della casa, alla gestione del cane di famiglia. Sullo sfondo, la capitale messicana degli anni Settanta, con il benessere ostentato delle neonate élite e l’asservimento delle classi meticce subalterne, il recupero delle terre espropriate e le rivolte che incendiano le strade della città. «Roma è un’esplorazione della gerarchia sociale del Messico, Paese in cui classe ed etnia sono stati finora intrecciati in modo perverso», ha commentato Cuarón in un’intervista.
Ma l’intreccio perverso di cui Cuarón racconta nel suo film è ravvisabile anche nell’immagine di quel Veneto solista di oggi che, terza Regione italiana per consistenza del fenomeno immigratorio, si destreggia – con non poche difficoltà – fra temi come il declino demografico, la diminuzione della popolazione in età lavorativa e il miglioramento della qualità della vita e della scolarizzazione dei cittadini autoctoni, alla base del subentro di quel lavoro migrante così temuto.
Vi siete mai chiesti cosa accadrebbe se uno “tsunami purificatore” facesse scomparire tutti i migranti? È ciò che accade proprio in una cittadina del Veneto e per Mariso Golfetto, industriale dai toni razzisti, quella diaspora è un sogno che si avvera. Golfetto, però, non ha fatto i conti con il contributo dei collaboratori domestici che ne gestiscono la casa, con il personale che lavora nella fabbrica di cui è proprietario. E con le affinità elettive con la prostituta nigeriana, con cui intrattiene una simpatica liaison extraconiugale (Cose dell’altro mondo, F. Patierno, 2011).
E allora, noi ci chiediamo, se davvero uno “tsunami purificatore” si abbattesse sul nostro Veneto solista, questa terra così operosa e contraddittoria imboccherebbe, forse, un percorso più plurale?
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