Spoiler – “Torre di controllo” nel prossimo Senza Filtro

La vita incolore di Truman Burbank nasce di fronte a una telecamera. Ed è una telecamera che ne segue, in ogni luogo e in ogni dove, l’infanzia e l’adolescenza; le relazioni con gli amici di sempre, il lavoro come assicuratore e il matrimonio con la bionda Meryl. Sull’isolotto in cui Thruman abita, Seahaven, tutto è […]

La vita incolore di Truman Burbank nasce di fronte a una telecamera. Ed è una telecamera che ne segue, in ogni luogo e in ogni dove, l’infanzia e l’adolescenza; le relazioni con gli amici di sempre, il lavoro come assicuratore e il matrimonio con la bionda Meryl. Sull’isolotto in cui Thruman abita, Seahaven, tutto è artificiale e tutto è ripreso da telecamere invisibili: la casa ordinata in un quartiere borghese, i vicini cordiali. Anche il giorno e la notte sono artificiali, così come il mare, le tempeste e tutti i fenomeni atmosferici. Perché Thruman, frutto di una gravidanza indesiderata e adottato alla nascita da un network televisivo, è in realtà il protagonista di una gigantesca messinscena: il Truman Show, un racconto sulla sua stessa vita allestito in uno studio grande come una regione. Di cui Thruman è l’unica, vera e inconsapevole persona filmata. E in cui tutti gli altri sono attori, diretti dal regista Christof, una sorta di moderno demiurgo che, con una sceneggiatura sapientemente costruita, esercita un controllo dei pensieri, delle azioni – e anche delle ossessioni – dell’ignaro protagonista (The Truman Show, P. Weir. 1998).

In un altro punto dell’etere è in corso un esperimento di telepatia. Cameron Vale è un disadattato che vive ai margini della società a causa di gravi disturbi psichici. Una potente multinazionale nel settore degli armamenti, la ConSec, lo raccoglie e lo inserisce nel programma Ripe, il cui scopo è quello di creare degli scanner, esseri dotati di poteri telepatici e capaci di controllare le capacità psichiche altrui, il cui quoziente intellettivo, potenziato con mezzi chimici, può avere effetti devastanti. Persino esplosivi. Ma fra gli scanners c’è Darryl Revok: l’esemplare più maturo, il più forte. E deciso a impadronirsi del potere. Ed occorre uno scanner buono per battere il più malvagio dei cattivi (Scanners, D. Cronenberg, 1981).

Sin dalle origini della storia del pensiero, l’uomo si interroga sull’idea di controllo e, anche in tempi più recenti – dai filosofi della morale scozzesi ai sociologi statunitensi –  ci si domanda com’è possibile l’ordine e com’è spiegabile l’adesione a norme universalmente vincolanti. Com’è possibile, in definitiva, il controllo, considerando la natura animale dell’uomo. La storia della Settima Arte pullula di storie che raccontano di controllo e ribellione, di individui all’interno di società costrittive e popolazioni controllate e oppresse; di mezzi di coercizione più o meno ortodossi, rispetto a un comportamento ritenuto deviante, che diventa non solo rivelatore delle “colpe” della società, ma anche – e più frequentemente – punto d’osservazione, nel quale sono evidenziati i limiti del controllo sociale.

La stessa Metropolis (id., F. Lang, 1926), nasce nella mente di Fritz Lang quando, durante un viaggio negli Stati Uniti, vede New York per la prima volta, «una New York notturna, scintillante di miriadi di luci» che, con tutta probabilità, ispira per prima la megalopoli del 2026 – Metropolis, appunto – divisa in tre differenti livelli: la città dei grattacieli e delle strade sopraelevate, che svetta verso il cielo; la città sotterranea, al di sotto della superficie terrestre, dove le macchine producono l’energia necessaria al funzionamento della città; e infine, il livello inferiore, quello delle catacombe. Una Metropolis dove la visione utopica del progresso, però, è pesantemente messa in discussione dal controllo sistematico delle masse.

Ma nelle storie che il cinema porta sullo schermo, il controllo dell’individuo si manifesta anche all’interno dei manicomi, dove l’eroe poco di buono si batte pur sapendo di perdere (One Flew Over the Cuckoo’s Nes, M. Forman, 1975); nell’istituzione familiare, dove la ribellione a rigide regole non può che trovare sfogo nella nevrosi e nella schizofrenia (Family Life, K. Loach, 1971). E nella società borghese, in cui la ricerca di una ragione per continuare a vivere, quando non riconducibile a un’etichetta politica o religiosa, conduce invece a uno scandalo, inevitabile e difficile da soffocare (Europa 51, R. Rossellini, 1952).

E poi c’è l’idea del controllo del tempo, perché raccontare di viaggi spazio-temporali è da sempre fra i più grandi desideri dell’uomo, ma anche un’impresa potenzialmente infinita. In che modo, però, è possibile controllare il tempo, spostandosi da un momento a un altro?

La propulsione a curvatura è il principio che permette alle navicelle spaziali di Star Trek di viaggiare a velocità superluminali, superiori quindi alla velocità della luce. Mentre è l’impiego dell’elevata velocità, che riesce a rompere la continuità spazio-temporale: come nel caso di Superman, che ruota su se stesso e di Flash, che utilizza un tapis roulant modificato. E c’è la classica macchina del tempo, che nel cinema assume le forme più inaspettate. Come nel caso della vettura d’epoca, che permette a un annoiato Gil Pender di catapultarsi nel milieu parigino, fra la «Generazione perduta» degli Anni Venti (Midnight in Paris, W. Allen, 2011). E come la mitica DeLorean, a bordo della quale il duo Emmett L. Brown aka Doc – Marty McFly attraverserà in lungo e in largo passato, presente, e anche il futuro. Per controllare gli eventi e riportarli al giusto ordine (Back to the Future, R. Zemeckis, 1985). La domanda, però, rimane sempre la stessa: cos’accadrà, quando poi si torna indietro?

 

 

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