Stereotipi sui migranti: un colpo al cerchio e uno alla pancia

Altro dunque sono È noto: i migranti sono il caso più plateale di un rapporto di conflittualità con l’altro che arriva. Ed è questa la cartina tornasole del secondo assioma: il migrante rappresenta un pericolo. Dai furti agli stupri, dalla microcriminalità allo spaccio di stupefacenti. Parafrasando il titolo di un film, il migrante è il Nemico pubblico, […]

Altro dunque sono

È noto: i migranti sono il caso più plateale di un rapporto di conflittualità con l’altro che arriva. Ed è questa la cartina tornasole del secondo assioma: il migrante rappresenta un pericolo. Dai furti agli stupri, dalla microcriminalità allo spaccio di stupefacenti. Parafrasando il titolo di un film, il migrante è il Nemico pubblico, contro il quale progettare specifici meccanismi di difesa.

In un celebre saggio del 1985, La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, il semiologo della cultura Jurij Lotman propone una teoria dalla carica fortemente innovativa, secondo cui le culture nascono sulla base di confini. Lotman sostiene l’idea secondo cui ciascuna parte, se presa da sola, non è in grado di funzionare realmente né di produrre nuova informazione, quindi non può essere assunta come modello della cultura a cui appartiene: «Tutto lo spazio semiotico si può considerare infatti come un unico meccanismo. […] Se si mettono insieme più bistecche non si ottiene un vitello, mentre tagliando un vitello si possono avere bistecche», scrive Lotman, sottolineando la necessità di un approccio alla cultura, che tenga conto del rapporto fra l’insieme (la semiosfera) e le sue parti.

Acquisisce, quindi, un’importanza fortissima la nozione di confine. Ciascuna semiosfera è circoscritta ed è delimitata dagli spazi circostanti, che afferiscono ad altre semiosfere; dalla prospettiva di una cultura, quindi, ciò che si trova oltre il confine è non semiotico ed è incomprensibile. Questa caratteristica implica la separazione tra spazio interno ed esterno. In definitiva, fra e altro. È un po’ ciò che avveniva nella Grecia classica, in cui lo spazio interno colto, organizzato e intriso di connotazioni euforiche si contrapponeva a uno spazio esterno barbaro, caotico e connotato in chiave disforica. Ed è un po’ il banco di prova con cui, storicamente, l’essere umano è chiamato a confrontarsi nel rapporto con culture ed etnie altre. Come affrontiamo l’interazione con chi è diverso da noi? Chiederselo è il primo passo.

L’escalation razziale è devastante

«Bisognerebbe pensare ai confini e avere la lungimiranza di osservarli in anticipo», commenta Federico Montanari, docente di Semiotica dei Media e di Comunicazione Visiva presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. «Le forme culturali del senso ci dicono che è importante osservare sia come le società si costruiscono nei rapporti con le proprie identità, sia come l’identità si costruisce attraverso i rapporti con la frontiera: con il confine e con l’altro, che può essere dentro di sé o fuori, proprio come avveniva nel mondo classico. Oggi, quindi, è fondamentale ripensare al nostro rapporto con gli altri, ma anche al rapporto che intratteniamo con le nostre frontiere, perché altrimenti il rischio è che queste idee vengano catturate dalla nascente ondata di neopopulismo reazionario, che reinventa concetti come l’identità e la nazione ma in senso totalmente regressivo».

«Oggi, a ottant’anni dalle leggi razziali, è impressionante notare come certi meccanismi retorici, tipici del fascismo, vengano iterati; il paternalismo economico, la difesa dell’italianità e delle nostre tradizioni, che rischiano di essere corrose e corrotte con l’arrivo di altri. La teorizzazione della “razza italica” da parte dei fascisti, pur senza esagerare con i parallelismi storici, si è basata su processi simili e tocca leve che possono essere attivate molto facilmente», chiarisce Montanari.

Sì, perché spesso anche la comunicazione costruisce i suoi corsi e ricorsi. «La guerra etnico-civile nella ex Jugoslavia è stata innescata da meccanismi molto simili», prosegue Montanari. «Prima della guerra esistevano sì le battute sul montenegrino fannullone o le barzellette sul contadino bosniaco, ma non si trattava di veri modi di pensare e quest’umorismo restava relegato ai margini. Poi, in maniera molto sottile è stata instillata la paura dell’altro, la necessità di proteggere le proprie comunità da incursioni esterne. L’escalation è un meccanismo devastante. Questi meccanismi hanno insinuato la costruzione dell’altro come nemico: citando un celebre film, è stata instillata l’idea di un Nemico alle porte. Allora è necessario riconoscere da un lato che le persone hanno paura dell’altro, ma al tempo stesso devono essere elaborati dei meccanismi di gestione della paura e della sua diffusione».

E il pericolo è ancora più evidente se pensiamo che, nel costruire l’altro come nemico, questi rischia di essere assorbito dal meccanismo della paura e, di conseguenza, di aderire realmente a quello stereotipo. Un po’ come accade con le bambine, sin da piccole a contatto con libri di testo, stereotipi e giocattoli che inculcano loro l’idea di non essere biologicamente predisposte per la matematica. E che, una volta adulte, avranno — studi alla mano — molte più possibilità di fallire ai test attitudinali nelle discipline scientifiche rispetto ai coetanei maschi.

«La profezia che si autoavvera è fra i meccanismi più potenti dei mondi sociali, perché crea le condizioni che impongono agli altri di comportarsi in un certo modo», conclude Montanari. «Più si attribuiscono delle etichette, più si tende ad aderirvi, non fosse altro che per forme di autodifesa e di resistenza. Come nel caso dei ghetti: più vengono descritti come ghetti, più si parla di smantellarli e più la gente che vive in questi luoghi tende a percepirli come tali».

Strumentalizzare: la politica ci prova

Quali possono essere le strategie da mettere in atto per contrastare una paura del diverso che, benché tutta umana, viene ciclicamente fomentata e strumentalizzata dalla politica per fini propagandistici?

Da un lato, è fondamentale che la stessa politica si assuma apertamente le proprie responsabilità. «Quando la politica smette di governare i processi, di governare la cosa pubblica e lascia che siano il mercato e le logiche del profitto a creare le proprie regole e ad autoregolamentarsi, l’effetto è questo», commenta Giuseppe Massafra, Segretario confederale della CGIL. «Prima, un’estrema concentrazione di ricchezza, di poteri e capitali in ambito privato, poi l’espropriazione di capacità di governo anche dal punto di vista istituzionale. Ci siamo illusi che ci sia un governo politico delle cose, sia a livello di Stato-nazione che a livello comunitario e siamo di fronte al fallimento della logica della costruzione di un’Europa politica. Questo perché l’atteggiamento è stato quello di abdicare al governo della cosa pubblica, lasciando che logiche di mercato organizzassero anche le stesse strutture della società. Con la globalizzazione questo fenomeno è cresciuto in modo esponenziale: abbiamo di fronte sette o otto oligarchie economiche che detengono la gran parte della ricchezza e che decidono e organizzano lo scenario mondiale. Ma questo processo è partito proprio quando la politica ha abdicato nella capacità di accompagnare un processo economico a un processo di estensione dei diritti: elemento caratterizzante della giustizia sociale fra popoli. Il rigurgito dei nazionalismi e dei meccanismi di chiusura non è che la conseguenza di questo fenomeno. Nella storia si è sempre determinato questo: di fronte a un processo liberista e di globalizzazione selvaggia si innescano meccanismi di chiusura a questi scenari, che sono meccanismi difensivi, risposte nette e dure, inutili e dannose».

Non sono razzista ma mio figlio…

Un meccanismo i cui effetti, nel concreto, sono ogni giorno sotto gli occhi di tutti. «Faccio un esempio», prosegue Massafra. «Qualche tempo fa ho accompagnato mio figlio a scuola ed era stata appena pubblicata una graduatoria del nido, attorno alla quale si era creato un capannello di genitori che commentava: “Vedete, io non sono razzista, ma mio figlio non può andare al nido perché metà di questa graduatoria è composta da persone con un nome straniero”. Allora la propaganda: “Prima gli italiani”, costituita da tre parole, dà una risposta a quel bisogno. Dice a quel genitore che, se quelle graduatorie privilegiassero chi è nato in Italia, noi avremmo più posti per i nostri figli anziché regalarli agli stranieri. Il tema, invece, è far capire — e non bastano tre parole — che il problema non è il criterio di selezione e di composizione di quella graduatoria. Il problema è che quella graduatoria è troppo piccola, troppo stretta. Il vero problema è che ci sono pochi asili nido. Ma pochi asili nido per tutti. Se quella graduatoria rimanesse tale, ma fosse gestita con criteri differenti, avrebbe sì qualche nome italiano in più, ma non risponderebbe lo stesso ai bisogni sociali. E perché ci sono pochi asili nido? Perché le politiche di austerità, le politiche di contenimento dei costi, frutto dell’indebitamento dei processi finanziari che sono sfuggiti al controllo degli stati hanno determinato la necessità di applicare politiche di taglio indiscriminato. E cosa viene tagliato? Innanzitutto, viene tagliato il sistema sociale».

«Parafrasando, quindi, Umberto Eco, secondo cui “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli”, è possibile affermare che essi hanno dato la stura, perché un po’ tutti, come diceva Michel Foucault, dobbiamo combattere contro una specie di fascista che abbiamo dentro di noi», chiarisce Federico Montanari.

Il problema più profondo, dunque, è il rapporto con l’alterità, che resta il tema fondamentale con cui ci si deve confrontare. «Tornando all’origine, quindi, qual è il problema? Il problema non è prendersela con chi arriva. Il problema è che noi abbiamo una mortificazione del nostro sistema sociale, del soddisfacimento dei bisogni determinato da un taglio indiscriminato, che a sua volta è frutto di politiche che hanno permesso un indebitamento generale, scaricato sulle spalle di ciascuno di noi, rispetto al fatto che abbiamo inseguito politiche finanziarie di trasferimento delle merci e dei flussi in tutto il mondo, senza accompagnarle a logiche di equa redistribuzione della ricchezza», aggiunge Massafra. Con buona pace di chi sostiene che provvedimenti come la flat tax, il sistema di tassazione basato su un’aliquota fissa e che nega, quindi, l’idea di equa redistribuzione della ricchezza, possa realmente risollevare le sorti dei nostri ceti medi.

«Esistono, inoltre, meccanismi di altro tipo, come quello provocatoriamente messo in evidenza dal filosofo Slavoj Žižek, secondo cui le sinistre hanno proclamato i diritti civili ignorando il proliferare delle paure», spiega Montanari. «Il problema è che, oltre ai funzionamenti retorici e discorsivi, esistono dei funzionamenti di tipo semantico e valoriale che buttano benzina sul fuoco. Certo, si può parlare della paura dell’altro, del diverso, del timore di un’invasione. Ma questi temi devono essere affrontati in maniera più profonda: anziché etichettarli come discorsi fascisti o di estrema destra, sarebbe necessario evidenziarne le cause antropologicamente più profonde. Anche perché un certo tipo di sinistra ha fatto propri questi stessi stereotipi sulla migrazione. Come nella Francia degli anni Settanta e Ottanta: da un lato politiche di accoglienza, dall’altro forme di razzismo e di poca tolleranza nelle banlieue. È come se oggi fosse stato scoperchiato un vaso di Pandora che le forme discorsive dei media fanno proprio». Ed è un po’ com’è accaduto durante la precedente legislatura in Italia e con i provvedimenti su sbarchi e rimpatri messi in atto dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti; ma anche un po’ come accade oggi, sempre in Italia, con le recenti prese di posizione da parte di Debora Serracchiani, esponente del Partito Democratico, in tema di stupri, migrazioni e clandestini.

 

Leggi la prima parte del reportage: La retorica sui migranti? Una pacchia, di Marika Nesi Lammardo

Leggi la terza parte del reportage: Salvini è Dorian Gray, purché se ne parli, di Marika Nesi Lammardo

 

Photo by Jon Tyson on Unsplash.

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