La retorica sui migranti? Una pacchia

«La pacchia è finita». Così, il Ministro dell’Interno Matteo Salvini sul tema dei migranti, all’indomani dell’insediamento al Viminale. «I regolari e gli onesti non hanno niente da temere – prosegue il Ministro – mentre per i clandestini è finita la pacchia: preparatevi a fare le valigie». Dai braccianti agricoli alle badanti, dai collaboratori domestici agli […]

«La pacchia è finita». Così, il Ministro dell’Interno Matteo Salvini sul tema dei migranti, all’indomani dell’insediamento al Viminale. «I regolari e gli onesti non hanno niente da temere – prosegue il Ministro – mentre per i clandestini è finita la pacchia: preparatevi a fare le valigie».

Dai braccianti agricoli alle badanti, dai collaboratori domestici agli operai assunti nei nostri cantieri edili. Per non parlare di chi finanzia le nostre pensioni. Lo scorso 4 luglio il presidente dell’Inps Tito Boeri ha dichiarato che, per mantenere il rapporto tra chi percepisce una pensione e chi lavora su livelli sostenibili è cruciale il numero di immigrati che lavoreranno nel nostro Paese. In occasione della Relazione annuale dell’Istituto di Previdenza alla Camera, Boeri ha parlato anche di politiche di recupero della bassa natalità italiana e dei tassi di occupazione femminile, così come della necessità di aumentare i migranti regolari. «La storia ci insegna che, quando si pongono forti restrizioni all’immigrazione regolare, aumenta l’immigrazione clandestina: in genere, a fronte di una riduzione del 10% dell’immigrazione regolare, quella illegale aumenta dal 3 al 5%», ha dichiarato il presidente dell’Inps. In netta controtendenza con la legge 30/7/2002 n. 189 (cd. Bossi-Fini) e con il D.L 241/2004 “Disposizioni urgenti in materia di immigrazione”, convertito nella L.271/2004. E in controtendenza con le attuali politiche – e con le attuali retoriche – anti-migranti, così di tendenza oggi.

Appare dunque evidente che, se i lavoratori migranti cessassero di arrivare nel nostro Paese, la pacchia sarebbe sì finita. Finita, però, per noi. Meno tributi nelle casse dello stato, meno pensioni e meno badanti per tutti e, cosa che ci tocca più da vicino, addio ad arance e a pomodori datterini low-cost nei banconi dei nostri supermercati. Ma quanto incide realmente la figura del migrante in Italia, dal punto di vista economico, produttivo e nella fenomenologia antropologica e politica?

Perché il tema è sempre lo stesso: l’annosa contrapposizione tra popolo ed élite. Oggi la globalizzazione ha incrementato le differenze sociali; destra e sinistra appaiono come concetti desueti, in via di estinzione. Le statistiche mettono sempre più spesso in evidenza una crescita delle diseguaglianze a livello economico. E, nonostante la storia insegni che i discorsi di inclusione sono sempre più forti dei discorsi di esclusione, oggi la propaganda anti-migranti è più forte che mai. Complici la politica, i media e un sistema di comunicazione progettato “a tavolino” e finalizzato a distogliere l’attenzione degli italiani dai problemi reali del nostro Paese.

È finita la pacchia per tutti? Leggiamo i numeri della CGIL

Partiamo dal primo assioma, secondo cui i migranti “rubano il lavoro” agli italiani.

Secondo dati riportati dall’ottavo Rapporto annuale 2018 a cura del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali “Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia”, il problema della disoccupazione non ha a che fare con l’immigrazione, bensì con il nostro mercato del lavoro. Al 01/01/2018 gli occupati stranieri sono 2.422.864 e, rispetto al 2017, l’occupazione straniera è cresciuta dello 0,1% nel caso dei cittadini europei (+1.088 unità) e del 1,3% nel caso dei cittadini extra UE (+20.859 unità), mentre l’occupazione dei cittadini italiani ha registrato un incremento pari a 1,2 punti (+243.000 unità). L’incidenza percentuale dei lavoratori stranieri sul totale degli occupati è del 10,5%.

Inoltre, il rapporto evidenzia differenze significative anche sul piano dei comparti produttivi. Nel caso degli “Altri servizi collettivi e personali” l’incidenza è del 37,3%; in “Alberghi e ristoranti” del 18,5%; in “Agricoltura” del 16,9% e nelle “Costruzioni” del 16,6%. Più del 70% dei cittadini stranieri è assunto con mansioni di operaio. Dal punto di vista dell’istruzione, il Rapporto evidenzia anche come il 47,5% dei cittadini non UE laureati in una disciplina STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) sia impiegato con una qualifica low skill a fronte dell’1,8% degli italiani e del 21,9% dei cittadini UE. Inoltre, negli ultimi anni il lavoro ha subito un deciso processo di precarizzazione, che ha comportato un netto peggioramento delle condizioni complessive, che prescindono dai processi migratori.

«Esistono specifiche tipologie di lavoro, che attualmente sono appannaggio della popolazione straniera: come i lavori di cura, nelle costruzioni, nell’agricoltura», commenta Giuseppe Massafra, Segretario confederale della Cgil. «A parità di incarichi, inoltre, i lavoratori migranti sono sottoqualificati rispetto agli equivalenti autoctoni».

Secondo l’VIII Rapporto (Im)migrazione e sindacato 2017 a cura della Cgil, inoltre, la crisi ha colpito con maggiore intensità la forza lavoro straniera rispetto a quella italiana: la distanza tra i tassi di occupazione si è ridotta e la percentuale di immigrati senza lavoro è cresciuta, sebbene abbia cominciato a diminuire già nel 2014. L’effetto della recessione si è fatto sentire in misura maggiore sugli immigrati non comunitari di sesso maschile e su quelli con titolo universitario. D’altro canto, la formazione e le competenze premiano meno gli stranieri (il tasso di occupazione degli immigrati con titolo universitario è più basso rispetto a quello dei laureati italiani) e proteggono meno i lavoratori non comunitari dalla disoccupazione rispetto ai lavoratori italiani. Il tema della sotto-qualificazione e delle difficoltà a trovare un impiego da parte degli immigrati, peraltro, è stato oggetto di una indagine specifica da parte dell’Istat, pubblicata nel 2015 e in base alla quale nel secondo trimestre del 2014 circa il 30% dei lavoratori stranieri ha dichiarato di svolgere un’attività̀ poco qualificata rispetto alle competenze e al titolo di studio conseguito, a fronte del 12% dei lavoratori italiani.

Il gender gap mitigato dagli stranieri

Inoltre, sempre secondo l’VIII Rapporto Cgil, il nostro mercato del lavoro è caratterizzato da due aspetti significativi, che comportano una serie di implicazioni: di natura economica, ma anche di carattere sociale e culturale. Il primo consiste nel basso tasso di occupazione, determinato principalmente dall’inattività delle donne, in particolare nel Mezzogiorno e soprattutto dopo la maternità. Come non pensare all’assenza di politiche volte a ridurre il gender gap che, in base all’ultimo Global Gender Gap Report, vede l’Italia collocata solo al cinquantesimo posto? La seconda caratteristica, invece, consiste nel progressivo invecchiamento degli occupati, conseguenza di due fenomeni demografici differenti: da un lato la bassa natalità, dall’altro l’allungamento delle aspettative di vita, che hanno trovato espressione nei provvedimenti legislativi volti al differimento dell’età̀ pensionabile. L’immigrazione degli ultimi 15 anni ha contribuito, quindi, a mitigare le dinamiche demografiche legate all’occupazione.

“Ci rubano il lavoro”

«L’idea che i lavoratori migranti “ci rubino il lavoro”, quindi, non è altro che la costruzione di un’alterità», prosegue Massafra. «Il tema dell’immigrazione ha una importante rilevanza nel dibattito pubblico, ma è soprattutto una forma di propaganda, finalizzata a spostare l’attenzione dai problemi reali presenti nel nostro Paese, tant’è che la mistificazione di questo fenomeno è concepita per influenzare negativamente l’opinione pubblica. Eppure, i flussi migratori sono il segnale che l’accesso ai beni primari, ai diritti, al benessere economico e sociale non è garantito dal modello economico imperante. Anzi, possiamo affermare che, così come ci sono italiani che scelgono di andare via per trovare migliori possibilità, lo stesso accade per i migranti che arrivano in Italia. Il fenomeno, pertanto, va osservato nella sua complessità e solo così è possibile comprendere che il migrante che sbarca a Lampedusa non è concorrente del disoccupato della periferia di Milano ma è, come si sarebbe detto in altri tempi, un suo “compagno”».

Quello del contrasto all’immigrazione, dunque, appare subito come un falso problema. Una questione fuorviante. Inoltre, la dinamica del ribasso, in base alla quale è prevista l’assunzione del lavoratore che “costa meno” al datore di lavoro, ha creato un conflitto molto forte, che oggi viene alimentato dall’idea di contrasto e di chiusura dei confini. Perché in Italia esiste sì un problema reale, ma è quello, appunto, della svalutazione del lavoro. «Se anche chiudessimo le frontiere, cosa succederebbe se non avessimo risolto il tema della dignità del lavoro?», puntualizza Massafra. «In quel caso, il problema non ricadrebbe più sui migranti ma sugli ultimi della scala sociale nel nostro Paese. Non risolvendo quel tema nella sostanza, sposteremmo semplicemente il livello di “colpevolezza” e di “accusa”, ma non cambieremmo le cose, perché avremmo comunque una situazione che si basa sull’idea di un mercato che regola i processi e le dinamiche unicamente sulla base di se stesso, spostando al ribasso queste situazioni».

«Per anni abbiamo rincorso l’idea, secondo cui creare maggiori condizioni di flessibilità e di dinamismo nel mercato del lavoro avrebbe generato anche maggiori opportunità. Di fatto, però, questo scenario non ha realmente comportato maggiori vantaggi: ha fomentato piuttosto una logica, quella del ribasso, della mortificazione del lavoro, che oggi perde il suo valore essenziale e la sua dignità. Bisognerebbe, invece, creare una precisa consapevolezza e un controllo sulle dinamiche produttive e delle filiere, per assicurarci che i contratti e le normative sulla sicurezza vengano rispettate: questo determinerebbe un livellamento generale e, a quel punto, varrebbe il principio del lavoro qualificato, del lavoro giustamente riconosciuto e non avremmo quelle condizioni di estremo disagio che oggi si scaricano soprattutto sugli ultimi e che sono la ricchezza e la risorsa di quelle attività criminose che proliferano intorno allo sfruttamento».

«È un circolo vizioso alimentato da un’impostazione mercatista e che relega le politiche migratorie a una serie di norme che rispondono a una logica emergenziale. Negli ultimi vent’anni la questione immigrazione è stata affrontata riconducendola ad una questione di ordine pubblico e di sicurezza. È sbagliata questa equazione. Abbiamo bisogno, piuttosto, di dotarci di politiche sull’immigrazione che passino da un sistema che garantisca flussi sicuri e regolari, e di processi reali d’integrazione, che partano a loro volta proprio dalla condizione lavorativa. Dal punto di vista lavorativo, il fatto che le condizioni siano le stesse per tutti significa non solo contribuire ai processi d’integrazione reale ma anche determinare quel riequilibrio fra le fasce della popolazione che oggi risentono di grandi difficoltà. D’altronde, perché funziona la propaganda contro i migranti? Funziona perché parla alla pancia, perché parla a un sentimento di difficoltà diffuso e percepito da tutti. Percepito perché, dopo anni in cui il lavoro è stato continuamente mortificato sotto la sfera dei diritti e delle tutele, scarica i propri effetti proprio nella parte bassa della società», conclude.

 

Leggi la seconda parte del reportage: Stereotipi sui migranti: un colpo al cerchio e uno alla pancia, di Marika Nesi Lammardo

 

Photo by Alex Iby on Unsplash

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