Piero Ottone nel 1969 sul Corriere della Sera ricordava che i torinesi, che fino alla metà dell’Ottocento producevano solo vermouth, cioccolato, armi e carrozze, si sono messi a fabbricare automobili, locomotive, macchine, strumenti di precisione, e a partire dagli anni Sessanta sono diventati una dinamica città industriale, con un milione e centomila abitanti e un reddito pro capite doppio rispetto a quello nazionale. Eppure il bilancio non è tutto attivo. L’industria, nel vetusto mondo piemontese, si espande con rapidità vertiginosa; il Piemonte la domina, ma gli rimane estranea. Si crea un preoccupante squilibrio: il Piemonte produce, però non progredisce.
La Fiat, l’ultima regina di Torino
Torino è il regno della Fiat. La capitale del Piemonte passa da una monarchia all’altra, e a partire dalla Prima Guerra Mondiale si può affermare senza retorica che la Fiat prende il posto della monarchia in tutte le attività economiche, sociali, industriali e artistiche della città. La Fiat assomma in sé ogni attività: oltre alle automobili, ai motori marini e agli aeroplani, compra cinematografi e il massimo quotidiano della città; costruisce case e ospedali, alberghi e autostrade; incamera l’industria dolciaria torinese nel gruppo Venchi-Unica; alloggia i dipendenti, li cura e li diverte, e giunge persino a creare l’opposizione a se stessa, cioè il sindacato aziendale. Non a caso il francese Pierre Gabert scrive, sempre in quegli anni, che “il gruppo IFI-Fiat (una delle massime holding italiane) detiene la maggior parte dell’industria cioccolatiera e dei bonbons che incontestabilmente non hanno niente a che fare con l’automobile!”.
La cultura è isolata a Torino, nel senso che è una città in cui si discute poco. Vivono in essa uomini colti, di grande valore che conducono un’esistenza appartata come se non si fossero accorti che intorno è cresciuta una città di un milione e centomila abitanti. Tale scarsità della vita culturale, intesa nel senso più lato, infatti, si sconta. Attira gli immigrati, ma non sa accoglierli e istruirli come si conviene. Produce, certo, l’abbiamo già scritto, ma non sa ordinare nel modo più conveniente i rapporti di lavoro, in cui il distacco fra la vita spirituale della città e la classe dirigente industriale è netto.
Torino, come dicevamo, è il regno della Fiat. Pierre Bois infatti nel 1971 sottolineava su Le Figaro che il concentramento di tutti i mezzi industriali (dall’acciaio grezzo alle finiture dell’automobile) in un’unica fabbrica ha provocato un enorme bisogno di manodopera. La Fiat (prima Compagnia industriale d’Europa) ha regolarmente attinto dall’inestinguibile riserva di manodopera dell’Italia del Sud, e qualche volta da 30 a 50.000 uomini l’anno. Risultato: tra il 1960 e il 1967 la città ha raddoppiato la sua popolazione, passando da seicentomila abitanti ad un milione e duecentomila.
La sua posizione sociale è solo quella di un manovale o di un operaio specializzato su una catena di montaggio. All’epoca la gente del Sud che occupa posti abbastanza importanti si conta sulle dita della mano. L’uomo del nord è il vero operaio professionista, il caporeparto, il capo officina. Davanti alla macchina si scontrano quindi due mentalità: uno vive di tempo europeo con le sue esigenze moderne, l’altro si trascina cinquant’anni indietro rispetto a un passato sudista che non si è trasformato. Quando si interrogano i delegati sindacali torinesi sulle cause del malessere operaio, in generale rispondono: “Viene dalla monotonia del lavoro”. In realtà, proviene soprattutto dalla monotonia e dalle difficoltà della vita dell’operaio trapiantato in una città che non sentirà mai sua. Un malcontento che si trasporta nella fabbrica: “Siamo in un campo di battaglia scelto dai nemici come simbolo del progresso capitalista e del consumismo”. “È un problema che ci oltrepassa”, si dice alla Fiat. È vero, e riguarda in realtà l’intero Paese.
La Torino ibrida di oggi, che somiglia all’Italia
Ci sono anche alcuni rilevanti aneddoti, come ci racconta Giorgio Inaudi, profondo conoscitore della realtà torinese: “A metà anni Cinquanta, mio padre aveva una piccola officina di decorazione dei vetri con cinque o sei operai, quasi sempre meridionali, i quali svolgevano tale mansione, comunque nella speranza prima o poi di andare alla Fiat per ottenere un impiego a lungo termine. Ecco, quando uno dei suoi operai se ne andava, mio padre si recava alla Stazione di Porta Nuova, aspettava il Treno del Sole e, mentre la gente scendeva, chiedeva: cerchi lavoro? E così facevano artigiani e piccoli imprenditori, che offrivano lavoro a una moltitudine di gente che non era ancora scesa dalla carrozza. Non era l’operaio che cercava il lavoro, ma il padrone che cercava l’operaio”. Ma alcuni mestieri sono cambiati con l’immigrazione, gli chiedo? Risposta: “I nuovi venuti non erano artigiani, ma sostanzialmente agricoltori che divenivano operai; difficilmente si sostituivano agli artigiani piemontesi”.
Aldo Cazzullo, infine, nel suo L’Italia de noantri. Come siamo diventati tutti meridionali (2009, ed. Mondadori) definisce la Torino di oggi una città ibrida, priva di un’identità definita. Metà della popolazione è di origine meridionale, e non si è integrata come a Milano; è composta da ragazzi nati a Torino ma che parlano con accento pugliese o campano, calabrese o siciliano. Torino, insomma, assomiglia all’Italia molto più di quanto non sia mai accaduto. Ci sono più dipendenti comunali che operai Fiat. Si mangia per strada, ogni ristorante ha aperto il suo “dehors”, come si dice qui; ci sono pure i funghi per scaldarsi d’inverno, come nelle città turistiche. La cultura industriale è ancora viva, come dimostra lo sbarco della Fiat a Detroit, che ripercorre a ritroso il viaggio del senatore Agnelli, il quale un secolo fa aveva importato dall’America il fordismo, mentre ora è Torino a esportare la tecnologia e il lavoro italiani.
Photo credits: Movimento Operaio Archivi