Un guasto tecnico sul volo Palermo-Napoli

30 gennaio 2015: mi trovo a Palermo per lavoro, anche se ogni volta che mi trovo a Palermo per lavoro, devo dirlo, mi rendo conto di essere lì anche per piacere; per estremo piacere. Peccato e per fortuna che, quella sera di un non troppo freddo gennaio isolano, il volo Alitalia che doveva riportarmi a […]

30 gennaio 2015: mi trovo a Palermo per lavoro, anche se ogni volta che mi trovo a Palermo per lavoro, devo dirlo, mi rendo conto di essere lì anche per piacere; per estremo piacere. Peccato e per fortuna che, quella sera di un non troppo freddo gennaio isolano, il volo Alitalia che doveva riportarmi a Napoli venga soppresso a causa di un “guasto tecnico”, ci diranno più tardi. Nessun avviso dagli altoparlanti, nessuna voce utile ad indicarci cosa fare, ma solo un avviso sul display, letto per caso e per dubbio sopravvenuto 20 minuti dopo quello che sarebbe dovuto essere l’orario di chiusura del gate d’imbarco. L’aeroporto di Palermo è poco organizzato oltre che molto carente nelle indicazioni fornite ai passeggeri che devono orientarsi al suo interno ma finalmente trovo uno steward di Alitalia che mi indica dove andare. Con me in attesa ci sono una quarantina di persone. Passate oltre due ore, con lentezza pachidermica gli addetti sistemano tutti su un altro volo. Tutti, tranne me ed altri otto sfortunati, che saranno costretti a passare la notte in hotel e a partire il giorno successivo.

L’albergo, devo ammetterlo, non è niente male. Un bel 4 stelle vicino al porto. La prima peculiarità dell’involontaria compagnia di “sfigati” consiste nel fatto che è composta praticamente da otto campani ed un pugliese. Mentre sono in navetta, sento il vociare familiare del mio dialetto e mi viene in mente una scena esilarante di “Nuovo Cinema Paradiso”. È una di quelle che ti restano impresse anche dopo dieci o venti anni che le hai viste. Sono semplici ma ti toccano qualcosa nei luoghi della memoria. Si piazzano lì abusivamente e non le sfratti più. C’è questo Napoletano immigrato in Sicilia che vince la lotteria ed urla gioioso per le strade del paese. A quel punto si sente un commento in siciliano: “Mii, sempre fortunati questi settantrionali”. Insomma, penso tra me e me, siamo tutti chiassosi terroni diretti verso il “settentrione” e, inutile dirvelo, ben presto stringiamo amicizia e decidiamo di cenare insieme. Mi viene in mente di chiedere a tutti i colleghi di sfiga di parlarmi del loro lavoro. Un modo per fare ulteriore conversazione, certo, ma colgo anche la possibilità di creare qualche buona occasione di networking. Tra i commensali ci sono un rappresentante di salumi che dice di conoscere la filiera per bene e per questo motivo di non mangiare carne, un simpatico maresciallo dei carabinieri, il manager di una multinazionale farmaceutica, il capo area di una ditta di condizionatori, un responsabile di Telecom Italia per la sicurezza sul lavoro. Ma l’idea di chiedere a tutti cosa facevano per vivere si rivela potenzialmente vincente quando trovo il direttore di uno storico e noto pastificio napoletano, ottimo cliente potenziale per un (a mia volta) cliente a cui curo la comunicazione e un ristoratore, pronto ad aprire a Miami, che ha la possibilità di offrire un posto di lavoro ad un mio caro amico che fa il pizzaiolo e ha voglia di cambiare aria e partire. Ecco perché la razza umana ha dominato e domina ancora questo: la parola, signori e signore.

La parola e la possibilità di usarla per socializzare, trovare occasioni di cooperazione e trasformare un odioso disagio in un’occasione insperata e fruttuosa di networking. Io credo profondamente nell’uso della parola, scritta e parlata. Credo profondamente nella comunicazione in senso lato, nella capacità che abbiamo di raccontarci e di ascoltare il modo in cui gli altri si raccontano. E quando viaggio, sia per lavoro che per piacere, mi faccio sempre guidare dalla curiosità. Ho ancora tutti i numeri e i nomi dei miei compagni di fortunata sventura, a ricordarmi che tutto ciò che spesso chiamiamo un po’ a caso “marketing” è nascosto sul serio ovunque e spesso è anche molto evidente. Così tanto evidente che corriamo il rischio di non scorgerlo.

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