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Vincenzo Lo Cascio, DAP:”Produciamo 700.000 mascherine al giorno nelle carceri di Bollate, Roma e Salerno”
Il capo sezione del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria racconta il processo con cui ha trasformato delle carceri in centri di produzione di mascherine.
Durante l’emergenza COVID-19, in particolare a marzo e aprile dell’anno scorso, le mascherine chirurgiche risultavano introvabili per chiunque. Una mancanza che in parte è stata colmata in carcere. Come? Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, attraverso il capo sezione dell’ufficio centrale per il lavoro dei detenuti Vincenzo Lo Cascio, ha avviato i contatti con il commissario straordinario per capire come produrle. Ne serviva una quantità industriale e nel progetto sono stati coinvolti grandi esperti d’industria e importanti società.
È proprio Vincenzo Lo Cascio a raccontarci come ha gestito l’impresa delle mascherine e come oggi le tre industrie impiantate nelle carceri di Bollate, Roma e Salerno producano 700.000 mascherine al giorno impiegando 150 detenuti.
Ma la visione di Lo Cascio non si limita alle mascherine. Il suo obiettivo è portare molte grandi imprese dentro le carceri, creando lavoro per i detenuti senza “rubare” lavoro all’esterno. Nella sua visione il lavoro carcerario può diventare una risorsa per le imprese e per la cittadinanza. E non intende solo a livello di abbattimento della recidiva.
Come ha avviato il progetto mascherine?
Innanzitutto abbiamo predisposto dentro le tre carceri le aree di lavoro. Le abbiamo ristrutturate, igienizzate e climatizzate – tanto che oggi sembrano delle sale operatorie – con degli investimenti minimi. Abbiamo ristrutturato queste aree davvero con pochi soldi e con il lavoro dei detenuti; oggi, vista la quantità di mascherine prodotte, queste aziende sono davvero un’eccellenza in Italia, una risorsa a tutti gli effetti. Con questa produzione copriamo non solo il settore dell’amministrazione penitenziaria, ma tutto l’apparato della giustizia, che ha migliaia di dipendenti.
E i detenuti come hanno reagito a questa iniziativa?
Si sono create ovviamente aspettative altissime, tutti volevano partecipare all’impresa. Anche perché quando esci dalla cella ti sembra davvero di recarti in azienda per fare un lavoro estremamente utile a tutta la comunità. Loro si sono messi subito in gioco e lo abbiamo fatto anche noi come imprenditori, con l’aiuto di aziende e specialisti esterni.
Nessun momento critico?
In realtà le criticità ci sono state, soprattutto nella fase iniziale, ma non riguardano i detenuti. Le macchine sono arrivate a dalla Cina, ma prima di farle partire gli ingegneri di Comau (azienda di automazione industriale e robotica) sono andati a testarle direttamente in loco. Nel frattempo noi qui preparavamo le aree e formavamo i detenuti. Quando sono arrivati i macchinari non avevano però le dotazioni di sicurezza previste dalle norme italiane, quindi li abbiamo dotati delle protezioni di sicurezza indispensabili per i lavoratori e per questa operazione abbiamo perso un po’ di tempo. Le difficoltà sono state tante, abbiamo lavorato giorno e notte per mettere in moto le macchine, ma ci siamo resi autonomi. Oggi il dicastero della giustizia viaggia in autonomia grazie a questa operazione, ma l’obiettivo è venderle anche all’esterno, a buon prezzo, e diventare un volano economico importante.
Volete importare altri macchinari?
In realtà no. Queste sono macchine ad alta tecnologia ad aria compressa, che possono incrementare la loro attività, e presto raddoppieremo la produzione con l’impiego di trecento detenuti. Al momento i detenuti sono pagati dall’amministrazione penitenziaria con le mercedi (i soldi che il ministero mette a disposizione per pagare i detenuti che lavorano per il mantenimento della struttura), ma il futuro non è quello.
E che cosa immagina per il futuro?
Il futuro è acquisire certificazioni professionali. Io di norma mi occupo di pubblica utilità, ma durante l’emergenza mi sono occupato del progetto mascherine e questa esperienza mi ha convinto che solo portando grandi imprese all’interno del carcere si possa fare la rivoluzione. Parliamo di grosse imprese che sposterebbero piccoli rami d’azienda in carcere per diversi motivi. Primo, perché ci sono gli sgravi fiscali. Secondo, perché avrebbero a disposizione un luogo per produrre che non gli costa nulla in termini di affitto.
Però ora devo mettermi dalla parte del cittadino che non ha lavoro o che lo ha perso per colpa del COVID-19. Perché impegnarsi così tanto nel creare lavoro dentro il carcere quando oggi il lavoro manca per tutti, anche fuori?
Se si crea un meccanismo virtuoso, questa operazione può aiutare le imprese che stanno per chiudere. Il carcere abbatte i costi e potrebbe permettere all’impresa in crisi di sopravvivere portando anche i suoi dipendenti a lavorare dentro l’istituto. Il carcere diventa il capannone, si mantengono i posti di lavoro esistenti portandoli dentro e si dà lavoro anche ai detenuti.
In pratica il carcere non ruba posti di lavoro, ma li salva?
Il carcere diventa una risorsa. Lo abbiamo già fatto anche con le mascherine. Per produrle servivano i responsabili di produzione e per trovarli ci siamo rivolti a un’importante agenzia chiedendole di selezionare persone che avevano perso il posto di lavoro per colpa della pandemia. Le abbiamo trovate e le abbiamo messe a lavorare in carcere per coordinare le attività industriali. Con queste condizioni anche delocalizzare in Cina non sarebbe più così conveniente.
Pensa davvero che il lavoro in carcere possa evitare meccanismi di delocalizzazione?
Io qui potrei offrire gli stessi costi della Cina grazie agli sgravi fiscali e alla messa a disposizione gratuita degli spazi, con la garanzia di lavorare in sicurezza e seguendo tutte le procedure legali (ricordo che a noi i macchinari dalla Cina sono arrivati senza le dotazioni di sicurezza). E poi rimane l’enorme vantaggio che il lavoro abbatte la recidiva. Insomma, a me pare che abbiamo la soluzione a portata di mano.
Qual è la fattibilità di questa operazione che ha in mente?
Ovviamente il progetto non può essere esteso a tutte le carceri, per motivi strutturali, ma se facciamo una white list di venti istituti e cominciamo a chiedere ai detenuti se si vogliono spostare da un carcere a un altro per lavorare, possiamo cominciare a mettere a sistema un’attività che coinvolge quattromila persone, che impareranno un mestiere e che non torneranno più in carcere dopo la fine della pena. E poi si potrà esternalizzare questa attività fuori dal carcere attraverso i beni confiscati alla mafia. In sostanza, possiamo innovarci utilizzando le norme e i mezzi che già esistono.
Il cambio al vertice del ministero non ha creato rallentamenti o meccanismi involutivi?
Il ministro Bonafede ha attivato la macchina. La ministra Cartabia ha una visione illuminata della pena e io sono convinto che metterà a sistema tutto.
Qual è il prossimo progetto attuabile?
Sicuramente quello che coinvolge la società multinazionale australiana LandLease, che si è aggiudicata la rigenerazione urbana dell’ex area Expo. Abbiamo firmato un protocollo tempo fa. Purtroppo la pandemia ci ha fermati, ovvero abbiamo solo formato i detenuti, ma ora stiamo ripartendo. È nella policy di LandLease il fatto di avere un impatto sociale importante, dando spazio alle persone, e con il protocollo 2121 LandLease chiederà a tutte le aziende che lavorano per loro di assumere una percentuale dei detenuti formandoli con certificazioni. Questo ad oggi è il programma più grosso che abbiamo in Italia, perché si tratta di centinaia di detenuti che andranno a costruire la Milano del futuro.
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