Vivere nei piccoli borghi: tutto ciò che nessuno dice

L’emergenza COVID ha puntato i riflettori sui piccoli borghi dimenticati d’Italia, rilanciando le opportunità che possono offrire per il “buon vivere”, rispetto alle città, diventate luoghi di assenza e segregazione durante il lockdown imposto per la pandemia. Si sono scomodate archistar del calibro di Massimiliano Fuksas e Stefano Boeri, che ha legato la sua professionalità […]

L’emergenza COVID ha puntato i riflettori sui piccoli borghi dimenticati d’Italia, rilanciando le opportunità che possono offrire per il “buon vivere”, rispetto alle città, diventate luoghi di assenza e segregazione durante il lockdown imposto per la pandemia. Si sono scomodate archistar del calibro di Massimiliano Fuksas e Stefano Boeri, che ha legato la sua professionalità alla ricostruzione di un piccolo borgo delle Marche raso al suolo dal sisma, Castelsantangelo sul Nera, a ricordare che ci sono agglomerati di case abbandonati, in Italia, una volta resi vitali da chi li abitava, e ora lasciati soli di fronte all’oblio e all’incuria del tempo.

 

I dati sui piccoli borghi, gioielli opachi d’Italia

I piccoli borghi sono lo scenario della vita di una gran parte del territorio nazionale. I centri sotto i 5.000 abitanti sono il 69,7% del totale dei comuni italiani. Secondo la ricerca sul disagio insediativo, presentata nei giorni scorsi da Legambiente e Unioncamere, ci sono ben 2.666 paesi in una situazione difficile dal punto di vista demografico ed economico; un quarto della superficie italiana rischia di rimanere fuori da opportunità di sviluppo. Piccoli borghi silenziosi che risalgono dal dimenticatoio in occasione di catastrofi, come il terremoto del 2016 in Centro Italia o la recente emergenza sanitaria legata al COVID-19, o quando la politica decide di ricordarsi di loro, principalmente in occasione di progetti calati dall’alto che consentono di distribuire, canalizzandole, risorse pubbliche.

Gli appelli pubblici, rilanciati dalle uscite di Fuksas e Boeri, su quanto si viva meglio nei borghi, per qualità della vita e grazie all’ausilio delle tecnologie che ormai permettono di lavorare ovunque (anche se di fatto rappresentano una possibilità concreta di riequilibrio territoriale), sono spesso intrisi di benaltrismo e sganciati dalla realtà dell’esistenza concreta, dove tutto si riduce a una dimensione più umana, grazie agli spazi dilatati e alla scarsità di presenze. Secondo questa ricerca tra il 1996-2016 sono stati 1650 i paesi abbandonati al loro destino. La legge che avrebbe dovuto rilanciare le zone montane, la 97 del 1994, è stata di fatto disapplicata, e non ha avuto nessun innesto normativo alla luce dell’evoluzione della società.

In anni recenti il fondo nazionale per la montagna tra il 2009 ed il 2016 non è stato finanziato, mentre dal 2016 al 2018 è stato rimpinguato con 5 milioni di euro annui, circa 900 euro per ciascuno dei centri con meno di 5.000 abitanti esistenti in Italia. Esiste anche una legge sui piccoli comuni risalente al 2017, ma finora non è mai stata attuata. Anche il fondo integrativo per i comuni montani negli anni scorsi ha avuto una dotazione di 5 milioni di euro annui – poche briciole per la vasta torta dei piccoli centri. Numeri che dimostrano come sino ad oggi le politiche pubbliche abbiano destinato poco e nulla a gran parte del territorio nazionale, che è il cuore stesso dell’Italia.

Una buona opportunità con una dotazione finanziaria di 440 milioni di euro di fondi strutturali europei, a cui sono stati aggiunti 126 milioni di euro di fondi statali, è la strategia delle aree interne, varata nel 2012 dall’allora ministro Fabrizio Barca, in fase attuativa nelle 72 aree povere di servizi e infrastrutturali, che sta facendo i conti con la burocrazia e con la scelta di togliere il coordinatore della misura nazionale.

Nell’ambito della programmazione europea 2021-2027 ci sarebbero in ballo per l’Italia circa tre miliardi di euro per finanziare il fondo europeo di sviluppo regionale. Un “tesoretto” che sicuramente farà gola alle diverse formazioni politiche ai vertici del Paese, che causerà sicuramente il rilancio del tema del riequilibrio delle aree interne, con la finalità di distribuire le ingenti risorse disponibili. In tutto questo quadro dominano la frammentazione e spesso il silenzio di piccole comunità lasciate al loro destino, con chi vive ogni giorno la quotidianità di un piccolo borgo che spesso non riesce a far sentire la propria voce al livello decisorio delle politiche pubbliche.

 

Vivere in un borgo: le difficoltà di sentirsi comunità e di entrare in contatto col resto del Paese

Scegliere di vivere in un piccolo borgo è oggi un atto di coraggio. Si vive a misura d’uomo, ma l’altro lato della medaglia mostra disagi legati alla marginalità di servizi pubblici e sanitari, incapacità di intercettare opportunità economiche e di sviluppo istituzionale e sociale. Non sempre piccolo è bello; spesso predomina nel silenzio dei paesi la quiete del lasciar vivere, il conformismo dell’adeguarsi a un contesto sociale e produttivo uguale a se stesso, facilitato dal naturale “effetto palcoscenico”, garantito dai piccoli spazi, in cui nel poco emerge chi sgomita di più, chi urla più forte, chi è semplicemente il più furbo, rispetto all’inazione della maggioranza. Nemmeno il refrain dell’isola felice risulta valido: fenomeni illegali, corruzione, associazioni a delinquere, si verificano ovunque, anche nei piccoli borghi, facilitati dal silenzio di una zona grigia fatta di connivenza e conformismo.

Il cancro che uccide il futuro di gran parte d’Italia è la difficoltà di scorgere il dinamismo, la contaminazione culturale e sociale e l’innovazione, che permeano i centri maggiori, dal piccolo cannocchiale di un contesto culturale fossilizzato e spesso retrogrado. La conformazione puntiforme dei piccoli borghi non favorisce il fare squadra, la sintesi intorno a temi e problemi comuni, causando l’impossibilità di avere quella massa critica fondamentale per entrare nella scena del dibattito pubblico.

La frazione terremotata di Moreggini di Fiastra (Mc). Photo@Monia Orazi

 

Ragionando sul “vuoto” di opportunità dei borghi, il poeta Gianfranco Bucich, che dalla provincia marchigiana lancia la sfida di un progetto che unisce cultura, mondo produttivo e rinascita dei centri devastati dal sisma del 2016, rileva: “Immediatamente la scena rivela la natura di quel teatro che incorpora tutto, ovvero quella produzione, ormai insensata, fine a se stessa, replicante all’infinito il solo dato quantitativo, in uno sterminato usa e getta planetario: responsabile di quel disastro ambientale, matrice di tutte le altre sciagure. Contraltare della devastazione è l’assenza, di qualcosa che però già pare riaffiorare all’orizzonte, ovvero l’idea di comunità, di integrazione territoriale, e della loro naturale alleata, quando opportunamente utilizzata, ovvero l’innovazione tecnologica. Non solo dai tempi della ricostruzione, relativa ai danni causati dal sisma in Italia centrale, ma da molto prima, avevo in testa l’idea di un imprescindibile rapporto tra aziende, arte e ricerca, coltivata con la pubblicazione da me ideata e diretta tra il 2002 e il 2008, l’Atlante di numeri e lettere: etica ed estetica nel divenire della tecnica: ovvero un rapporto simbiotico tra mondo umanistico e mondo scientifico declinabile anche nella prassi”.

Diventa così centrale il ruolo delle comunità, la necessità di alimentare la loro consapevolezza delle potenzialità dei luoghi in cui vivono. Il COVID-19 ha proiettato l’intera nazione nel futuro prossimo venturo, con lo smart working che ha reso concreta la possibilità di lavorare ovunque. La banda larga potrebbe rendere raggiungibili e abitabili luoghi decentrati, superando ataviche barriere infrastrutturali, ma per ottenere comunità funzionali e vive serve entrare nella logica di guardare ai problemi concreti, liberandosi dall’ipocrisia di ricordarsi dei piccoli centri solo quando è utile a raggiungere scopi di assistenzialismo politico, con progetti astratti, calati dall’alto, preparati ad hoc per intercettare fondi pubblici.

Uno scorcio del campanile di Valfornace. Photo@MoniaOrazi

Che cosa serve per salvare i piccoli borghi: la differenza tra innovazione e devastazione

I campanili disegnano skyline ferme a centinaia di anni fa; nei borghi dell’Appennino si vive come nella Resistenza, dove il terremoto ha colpito più duro, ad aspettare tra macerie immote e finte promesse una svolta che sembra non arrivare mai. Dove invece il sisma è relativamente lontano ci si adagia sulle consuetudini, sul refrain della famosa canzone “paese mio che stai sulla collina, disteso come un vecchio addormentato, la noia, l’abbandono, il niente son la tua malattia”.

Per avere una svolta serve una piccola rivoluzione. Chi popola l’Italia minore deve avere immaginare un futuro diverso, a partire dalla consapevolezza delle potenzialità che si celano dentro i vicoli, tra le stradine bianche che conducono a borghi avvolti dal silenzio, nella fruizione di scorci naturali mozzafiato, nel degustare la ricetta tipica tramandata da generazioni, in un luogo difficile da trovare con il navigatore. Per modificare un destino che appare segnato si devono attuare azioni di coordinamento dal basso, raccogliendo le voci, i desideri, le istanze, le idee dei cittadini dei piccoli comuni, perché non si può prescindere dall’aspetto essenziale dell’autodeterminazione delle comunità locali, modificando la naturale propensione al senso del ritorno, piuttosto che allo slancio in avanti.

La precondizione necessaria al buon vivere nei piccoli centri parte dalla consapevolezza del valore intrinseco dei luoghi, che anche in zone marginali si è immersi in un mutamento perenne. Conclude Gianfranco Bucich: “Mi sento meno solo, nel mio vagabondare tra strutture, gruppi, associazioni, legati al mondo della creatività in senso lato, anzi rinvenendo un comune denominatore in quell’anelito di comunità: e per questo tramite stabilire possibilità di incontro, interazione con la parte più illuminata del mondo della produzione, quella legata all’eredità olivettiana, che a sua volta declini l’idea di comunità nell’ambito del lavoro. E in quest’aurea trama non posso non iscrivere la gloriosa ‘Sibilla’. Mettendo dunque a tema la centralità del tema comunitario, e di un imprescindibile e rinnovato rapporto con tecnologie e mercato, si evince al contempo l’inestricabilità di questi fattori laddove si tenti di connotare un territorio, a cui si deve aggiungere la ricontestualizzazione dell’ambito metropolitano, continuando a inseguire la catena di relazioni. Ora, all’improvviso, uno tsunami ha scombinato tutto: i riflettori hanno buone possibilità di riaccendersi su luoghi che con grande difficoltà tentavano di rianimarsi. Ma come si sa le opportunità viaggiano sempre in compagnia dei pericoli: e l’entusiasmo dovrà essere in grado di distinguere tra innovazione e devastazione”.

 

 

In copertina, un angolo di Visso rimasto intatto dopo il sisma 2016. Foto di Monia Orazi

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