172 mani per un vestito: le Fashion Week inquinano ambiente e lavoro

Servono 86 lavoratori, con stipendi bassissimi, per far arrivare un capo d’abbigliamento nei nostri armadi: colpa di un sistema in cui i grandi marchi schiacciano al ribasso la filiera di produzione e si moltiplicano i rifiuti. Le voci di Deborah Lucchetti (campagna Abiti Puliti) e del PM Paolo Storari dallo Sfashion Weekend di Milano

01.03.2025
Rifiuti tessili impilati in balle: più che una Fashion Week, serve uno Sfashion Weekend

Non solo sfilate, nuove tendenze da seguire nelle prossime stagioni, party fino a notte inoltrata. La moda, che da martedì 25 febbraio a domenica 2 marzo, a Milano, diventa protagonista per la seconda Fashion Week dell’anno (saranno quattro in tutto il 2025) dedicata alla donna, ha un lato oscuro che tutti conosciamo, ma di cui ci dimentichiamo.

È fatto di sfruttamento delle persone e del pianeta; di lavoratori e lavoratrici che, mentre realizzano un paio di pantaloni per una manciata di euro l’ora, non possono neanche andare in bagno per non interrompere la produzione.
Di questo e tanto altro si è parlato durante la prima edizione dello Sfashion Weekend, evento organizzato nella città della moda da Campagna Abiti Puliti e Fair Cooperativa Sociale, al quale ha partecipato anche SenzaFiltro: la sostenibilità della moda è un tema che abbiamo affrontato nel reportage Sfilate inquinate, e che è lontano dal trovare una dimensione davvero applicabile, come dimostrano i numeri, le storie, gli impatti sui consumatori e il ruolo delle grandi aziende.

"Una scarpa pagata 18 euro al fornitore cinese viene poi venduta a 700 euro in via Montenapoleone, mettendo in evidenza come il modello d’impresa debba essere cambiato alla radice."
Paolo Storari, PM della Procura di Milano

Per un capo di 29 euro, solo 18 centesimi vanno agli operai

Provate a prendere qualsiasi indumento che avete nell’armadio, una t-shirt, dei pantaloni, una giacca: ognuno di questi, in media, è passato attraverso 172 mani, il lavoro di 86 persone. Persone che non guadagnano abbastanza per vivere in modo dignitoso.

D’altra parte come potrebbe essere diverso se, comprando una maglietta al costo di 29 euro – un prezzo, per l’acquirente, di tutto rispetto – agli operai tessili (soprattutto donne) vanno solo 18 centesimi? Il costo è così suddiviso: 17 euro al negozio, 3,40 di materiali, 3,61 al marchio di abbigliamento, 2,19 al trasporto, 1,42 euro allo stabilimento, 1,20 agli intermediari. Trasportare un prodotto già realizzato, a ben vedere, costa di più rispetto al lavoro di chi ci ha messo la testa e le mani, dimenticando spesso la propria dimensione di essere umano.

Questi sono alcuni dei numeri emersi dalla mostra Handmade: le lavoratrici della moda, allestita durante i tre giorni dell’evento. Un’esposizione che mescola le cifre con le parole delle operaie, che raccontano, tra aspirazioni e hobby – chi vorrebbe aprire un’officina meccanica, chi ha la passione per i bracciali di diversi colori – quanto vengano ancora oggi sfruttate.

Pagate 90 euro, senza bere per non andare in bagno

L’esposizione, prodotta dalla ONG olandese SCHONE KLEREN CAMPAGNE (SKC) (membro di Clean Clothes Campaign), mette in luce il lavoro di sette giovani sarte provenienti da Indonesia e Bangladesh. Donne – perché l’80% di chi lavora nel tessile appartiene a questo genere – che non possono bere perché rischierebbero di dover andare in bagno, cosa che nei picchi di produzione è proibita; donne che vengono sgridate più volte perché non riescono a sopportare ritmi assurdi; donne che lavorano ore e ore in piedi e sopraffatte dal mal di schiena. E ancora, donne che, se chiedono di andare via dal lavoro alle 21, non ricevono un ok finché non hanno finito. Tutto questo per uno stipendio di 90 euro al mese.

"Quello che vediamo nella moda è lavoro povero, lavoro schiavo, lavoro femminilizzato, razzializzato, confinato alla periferia di catene globali."
Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti

Un problema che riguarda i Paesi a basso reddito, ma anche l’Europa: i guadagni sono bassi in Romania, Bulgaria e Macedonia, ma anche nella nostra Italia. Un sistema complesso e interconnesso nel quale la pressione dei marchi, la frammentazione della filiera e la delocalizzazione sono tutti fattori che contribuiscono a violare con regolarità i diritti umani.

Il sistema è avallato dalla mancanza di regolamentazione e dalla tendenza dei brand a scaricare la responsabilità sui fornitori, evitando di assumersela per quanto concerne le condizioni di lavoro nella loro filiera.

Deborah Lucchetti: “Lavoro povero, anzi schiavo, nonostante la rilocalizzazione”

Un settore che, negli ultimi anni, è stato oggetto di una “narrazione tossica” che lo ha raccontato come in costante evoluzione, quando il tragitto che ha seguito è stato differente: lo ha ricordato Deborah Lucchetti (coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti), durante il talk Come vestirsi in un pianeta in crisi?,

“Prima è consistito in un processo di delocalizzazione nel cosiddetto Sud globale, caratterizzato da una competizione al ribasso, che ha prodotto dumping a tutti i livelli, oltre all’inondazione nel mercato di prodotti a bassissimo costo. Negli ultimi dieci anni si sta invece assistendo a un’inversione di tendenza, con fenomeni di rilocalizzazione della produzione in Europa e in Italia, accentuata dalla pandemia, che ha inciso sulle filiere internazionali.”

“Nonostante ciò, le condizioni di lavoro restano drammatiche, con stipendi bassissimi e la continua dominazione delle catene di fornitura globali da parte delle grandi marche, che accumulano profitti sfruttando risorse e persone, spostando di continuo merci e valori. Quello che vediamo nella moda è lavoro povero, lavoro schiavo, lavoro femminilizzato, razzializzato, confinato alla periferia di catene globali”.

Il mercato non si autoregola

In tutto questo, ha proseguito Lucchetti, “c’è anche la traiettoria del tema normativo: abbiamo assistito a una lenta e inesorabile squalificazione della politica nell’economia di mercato. Ci troviamo di fronte a un modello che ci dice che il mercato si autoregola, può correggere gli errori che produce, quindi non c’è molto bisogno di mettere delle regole. Ma il mercato non può risolvere i problemi che crea. Si è visto anche con la RSI (responsabilità sociale d’impresa) e il ruolo che le imprese possono svolgere autonomamente attraverso i codici di condotta; ma lungo questa traiettoria abbiamo riscontrato un netto peggioramento. Tutti gli indicatori che misurano la vera sostenibilità raccontano una realtà diversa: in particolare, l’indicatore salariale evidenzia un significativo deterioramento della situazione”.

In questo contesto si inserisce anche la lettera aperta inviata giovedì 20 febbraio ai Commissari europei e al governo italiano da parte di una cordata di quaranta organizzazioni italiane, comprese CGIL e UIL, in cui si chiede che non venga riaperto il dossier sulla Due Diligence, e che la Commissione europea, per armonizzare e semplificare l’attuazione, agisca attraverso atti esecutivi, in modo che gli Stati possano così procedere al reperimento.

La direttiva è infatti entrata in vigore pochi mesi fa, dopo un periodo di gestazione lungo quattro anni: mira a rafforzare la responsabilità delle imprese che operano all’interno dell’UE rispetto alla propria catena di valore, imponendo requisiti di verifica approfondita (due diligence, appunto) sulle altre aziende con cui collabora, per garantire diritti umani e standard ambientali lungo tutta la catena di approvvigionamento globale.

Sporchi, ma ben vestiti: in Europa 11 kg di rifiuti tessili pro capite

Il settore tessile ha visto la produzione di abbigliamento raddoppiare dal 2000 al 2014, e si stima che entro il 2030 si produrranno tra il 50 e il 60% di vestiti in più rispetto a oggi. Un consumo che ha conseguenze devastanti: ogni cittadino europeo genera in media 11 kg di rifiuti tessili all’anno.

Al contrario di quanto si pensa, questo fenomeno non riguarda solo i più giovani. I dati infatti mostrano che le persone tra i 50 e i 64 anni tendono a indossare i vestiti meno volte rispetto ai ventenni, intorno alle 6-7 in media. Senza dimenticare, poi, che produrre una t-shirt di cotone richiede 2.700 litri d’acqua. Il tessile, come è stato ricordato nel talk, è responsabile del 10% di tutte le emissioni di gas serra.

Peraltro, i grandi marchi della moda e del lusso, che spendono molto nel design, nel marketing e nell’affitto, non pagano la manodopera a cifre superiori rispetto a quanto faccia un marchio del fast fashion.

Paolo Storari: “Il modello d’impresa della moda va cambiato alla radice”

“Viviamo in una grande ‘società signorile di massa’”, ha ricordato Paolo Storari, PM della procura di Milano, “in cui una scarpa pagata 18 euro al fornitore cinese viene poi venduta a 700 euro in via Montenapoleone, mettendo in evidenza come il modello d’impresa debba essere cambiato alla radice. Molte aziende della moda oggi si appoggiano a opifici gestiti da imprenditori cinesi sparsi in tutta Italia, inclusa la periferia di Milano, dove i lavoratori operano in condizioni di semi-povertà. In alcuni casi, vengono sorvegliati da cani lupo, i bambini girano liberamente tra i macchinari e i salari sono di appena 2,70 euro l’ora. Preferibilmente si lavora di notte per evitare controlli, senza giorni di festa o riposo. Questi fenomeni hanno in comune lo sfruttamento del lavoro e un’ampia impunità. Uno degli stratagemmi più usati è il continuo cambio di cooperativa, che fa risultare i lavoratori come assunti da pochi mesi, quando in realtà lavorano nello stesso posto da anni. Si tratta di pratiche largamente accettate perché convenienti per tutti”.

Storari ha ricordato come in questo ci sia anche una responsabilità dei sindacati, che gestiscono “conciliazioni vergognose”.

“Tutto ciò non è frutto di un singolo amministratore delegato ‘cattivo’, ma di vere e proprie politiche aziendali che, come tali, vengono affrontate. Per questo motivo, sono poco interessato alla responsabilità individuale: il contesto è più importante delle singole persone. Se non si cambia il sistema, qualcun altro continuerà a sfruttarlo nello stesso modo”.

Tra le parole pronunciate dal PM c’è anche il decoupling organizzativo, la pratica con cui le aziende creano codici di condotta, protocolli e modelli di compliance (come il D.lgs. 231/2001), ma spesso si tratta di “aspetti cosmetici, è solo carta”. Una sorta di disaccoppiamento che vede da un lato una struttura formale dell’organizzazione volta al rispetto delle regole istituzionali, e dall’altro una sorta di struttura informale che persegue le regole dell’efficienza e del risultato.

Grazie al lavoro della procura di Milano sono state portate avanti importanti azioni legali, “con l’internalizzazione di 25.000 lavoratori e il recupero di 600 milioni di euro”. Anche se, ha precisato il PM, “al di fuori della Lombardia, in molte altre Regioni d’Italia, il silenzio resta regnante. Questo è dovuto probabilmente alla capacità delle grandi imprese di influenzare il ruolo dei sindacati e delle istituzioni”.

 

 

 

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Photo credits: lifeandpeople.it

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