Fa comodo che meritocrazia rimi con antipatia

Diciamolo: La grande bellezza non è poi ‘sto capolavoro… » «Hai proprio ragione. Non capisco tutto il suo successo…» «E diciamo anche questo: Paolo Sorrentino è decisamente antipatico». Dialoghi simili è capitato di sentirne, dopo la vittoria dell’Oscar, nel 2014, del film di Sorrentino con protagonista Toni Servillo. Discorsi analoghi si sentono anche in altri contesti. «Quello […]

Diciamolo: La grande bellezza non è poi ‘sto capolavoro… » «Hai proprio ragione. Non capisco tutto il suo successo…» «E diciamo anche questo: Paolo Sorrentino è decisamente antipatico».
Dialoghi simili è capitato di sentirne, dopo la vittoria dell’Oscar, nel 2014, del film di Sorrentino con protagonista Toni Servillo. Discorsi analoghi si sentono anche in altri contesti. «Quello lì è diventato direttore, ma cosa sa fare, davvero? Vai a sapere di chi è amico». Se poi la persona di cui si parla è una donna, scatta anche l’odiosa espressione sessista «Chissà a chi ha concesso i suoi favori».

Chi ha successo nel lavoro non di rado suscita antipatia. Per invidia, per gelosia, ma è probabile che ci sia anche dell’altro. La storia di Jep Gambardella, scrittore un tempo di successo e ora simbolo della decadenza romana, può lasciare indifferenti o addirittura annoiare. Però, nel giudicare il film di Paolo Sorrentino, non è che tutto sia da lasciare alla soggettività. Si può dire se la sceneggiatura è stata costruita bene, se i costumi sono curati, se la fotografia è di alta qualità. Solo, per farlo, bisogna saperne un po’. Bisogna aver studiato, bisogna tenersi aggiornati.

Insomma, talvolta non sappiamo spiegare il successo di alcune persone perché non abbiamo gli strumenti per valutarle. Sospendere il giudizio, in questi casi, sarebbe la cosa più ovvia da fare. Ma la tentazione di dare pagelle è troppo forte e così, chi ha successo per motivi che non comprendiamo, si becca un voto severo: lo classifichiamo come antipatico, senza appello.

Ci sarà capitato, di fronte a un’opera d’arte contemporanea, di dire «questa potevo farla anch’io». Ma non l’abbiamo fatta noi, l’ha fatta qualcun altro, che ora espone in un museo e le cui opere sono quotate centinaia di migliaia di euro. Se non si è preparati sull’argomento, non si distingue una preziosa creazione da un termosifone e si finisce per credere che l’autore della prima abbia successo solo perché ha i “contatti giusti”.
Abbiamo problemi con il merito perché non siamo in grado di entrare nel merito. E ciò credo sia dovuto a un vuoto culturale. Il tema della valutazione, nel nostro paese, è tabù. Si pensi al mondo dell’insegnamento. Una soluzione condivisa che consenta di dire se un docente fa bene il suo mestiere, ancora non l’abbiamo trovata. E parliamo di un ambito in cui la valutazione, il dare i voti insomma, è prassi quotidiana: figuriamoci in contesti diversi.
In aziende e organizzazioni mi capita di chiedere alle persone: il tuo capo è contento di te? Le risposte più frequenti sono «credo di sì» e «credo di no». Ma un lavoratore non deve avere incertezze sul giudizio del suo capo. Non può dire «credo che il mio capo sia contento di me». Deve saperlo.

Un altro caso che aiuta a capire la situazione è quello delle organizzazioni umanitarie. Il loro è il regno delle buone intenzioni, ma come valutarle nel merito? Come faccio a sapere se e quanto fanno del ‘bene’? Molti sostengono che si debba vedere la percentuale dei soldi spesi nella cosiddetta attività di missione che, più alta è, meglio è. Funziona così: l’organizzazione X, che lotta contro la fame in un paese africano, riceve dieci euro in donazione. Due li trattiene per le proprie spese, gli altri otto li investe dove le persone soffrono la fame. Poi c’è l’organizzazione Y, anche questa impegnata nel combattere la fame nello stesso paese. Su dieci euro ricevuti, cinque li trattiene per le sue spese, cinque li trasferisce nelle comunità colpite dalla fame. Quindi, secondo il pensiero di molti, la prima organizzazione, la X, è migliore della seconda, la Y. Il che è assurdo. Perché se, per esempio, X usa gli otto euro per portare cibo agli affamati, fa più danni che altro, creando dipendenza dalla donazione e mortificando lo sviluppo dell’agricoltura locale. Se invece l’organizzazione Y usa i cinque euro per pagare agronomi che collaborano con la popolazione locale e gli altri cinque per comprare della strumentazione che rimarrà alla popolazione stessa, fa un lavoro molto utile.

Quale sia la soluzione l’ho chiesto tempo fa a un’esperta sulla valutazione d’impatto, vale a dire il risultato dell’azione delle organizzazioni umanitarie. «Vuoi sapere se un’organizzazione fa bene il suo lavoro?», mi ha detto. «Chiedilo alle persone di cui si occupa. Loro lo sanno, se stanno meglio o peggio di prima». Troppo semplice? Forse, eppure non lo si fa quasi mai. Si raccontano l’eroismo e il cuore di chi aiuta le persone in difficoltà, ma non si chiede a queste persone il loro parere. Così, di nuovo, valutiamo sulla base di quanto l’operatore umanitario in questione ci è simpatico.
Entrare nel merito, in definitiva, significa mescolare una maggiore disponibilità a valutare (e a farsi valutare) con il rifiuto dei giudizi affrettati. D’accordo, non è la cosa più semplice del mondo. Ma l’alternativa è lasciarsi dominare dai meccanismi di antipatia e di simpatia, il che non è davvero una buona cosa.

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