This is not a (job) title

Sempre più spesso le offerte di lavoro sono scritte in un linguaggio infarcito di inglesismi di difficile comprensione. Ne abbiamo chiesto il motivo – e gli effetti – ad alcuni HR.

Il mondo HR ama da sempre flirtare con gli inglesismi: chi di noi non è stato almeno una volta “debriffato” in vita sua? Ma quando questo aspetto viene trasportato all’interno della scrittura di un’offerta di lavoro, il rischio concreto è di produrre qualcosa che la persona che si vorrebbe selezionare semplicemente non capirà. Il fenomeno è piuttosto noto. Leggere più volte un’offerta di lavoro, alla ricerca di un senso che sembrava sfuggire, è un’esperienza abbastanza comune, come quando c’è scritto global management EMEA office internship al posto di “stage”. E parlo da persona del settore.

Università e lavoro si guardano storto. E parlano lingue diverse

Tutte cose già viste, ma da dove originano? Perché scrivere una offerta di lavoro poco chiara, rischiando di non farsi capire? Semplice voglia di rendere la posizione più appetibile utilizzando l’inglese, che si sa, “è molto professional”? O forse la sempre crescente attenzione a professionalità connesse al mondo della digitalizzazione e della transizione ecologica (almeno, questo ci dicono i dati) rendono necessario usare un “gergo” nuovo non ancora traducibile in italiano? O magari il selezionatore (scusate: recruiter!) non è molto “skillato” con la lingua inglese?

Il problema può essere sentito in particolare dai candidati più giovani: all’uscita dal percorso di studi, confrontarsi con offerte “strane” e poco comprensibili può dare l’impressione di essersi impegnati per acquisire competenze che il mondo del lavoro non ricerca.

Ma ridurre la questione al vecchio assunto “l’università non prepara al lavoro” sarebbe davvero banale, e per questo motivo ho deciso invece di sottoporla ad Alberto Venturini in virtù del suo doppio ruolo di docente universitario a contratto presso l’Università di Pisa e HR Manager di Proaxxes, realtà attiva nell’internazionalizzazione d’impresa.

“C’è sicuramente uno scollamento fra i due mondi, università e lavoro”, mi dice Alberto. “In molti casi i programmi dei corsi universitari sono stati rivisti solo nella forma, lasciando una sostanza troppo concentrata sulla componente tecnica e ben poco interessata a tutto l’ambito trasversale. In azienda il nostro processo di selezione è invece centrato su questi elementi: ci interessa prima valutare come il candidato può adattarsi al nostro modo di costruire relazioni con i clienti, e solo dopo cosa è effettivamente già in grado di fare. Anche il nostro processo di onboarding è principalmente sistemico-relazionale, e di fatto scriviamo pochissime offerte preferendo incontrare direttamente i candidati al termine del loro percorso di studi, dando priorità a far conoscere bene la nostra realtà prima di proseguire nella selezione”.

Formazione e università non devono per forza coincidere

Una certa distanza fra formazione e mondo del lavoro può effettivamente essere un tema, che ho deciso di sottoporre a Vittoria Guglielmo, coordinatrice di percorsi ITS presso la Fondazione VITA.

“Per tenere sempre aggiornati i nostri programmi formativi inviamo un’analisi dei fabbisogni di competenze alle più di 130 aziende che collaborano con noi per la realizzazione dei percorsi, e il 60% dei nostri docenti lavora direttamente in azienda. Il nostro forte collegamento con il mercato del lavoro è trasversale, dialoghiamo sia con grandi realtà multinazionali che con piccole imprese, con l’obiettivo di perfezionare i nostri percorsi. Diamo anche forte attenzione allo sviluppo personale, oltre che professionale, investendo in maniera concreta in percorsi di orientamento e di potenziamento delle competenze trasversali dei nostri corsisti. Ad oggi questo ci permette di avere un tasso di occupazione del 78% dei partecipanti a un anno di distanza dal diploma: eppure incontriamo ancora aziende che scarteranno a priori un nostro diplomato, preferendo profili laureati anche se con competenze meno spendibili”.

Quindi un allineamento non sempre perfetto fra “competenze formate” e “competenze richieste” può sicuramente esistere, ma questo non mi dice molto delle offerte di lavoro poco chiare, specialmente se scritte in inglese/aziendalese.

Le offerte di lavoro e gli inglesismi desueti anche per i madrelingua

Affronto la questione con qualcuno per cui il tema sarà sicuramente centrale: Claudio Gasparri, HR Manager di My English School.

“Su LinkedIn vedo spesso dei job title non pienamente sensati, o accurati, o addirittura non corretti. Alcuni lasciano perplessi anche i miei colleghi madrelingua. Giusto per fare un esempio, un inglese non scriverebbe mai fringe benefit in un’offerta di lavoro. Noto offerte con titolo scritto in un inglese decisamente altisonante, ma con il testo rigorosamente in italiano. Personalmente in azienda ho fatto una scelta controcorrente, tornando a scrivere le offerte di lavoro non riservate a madrelingua completamente in italiano.”

Claudio mi racconta che una loro recente posizione dedicata al coordinamento di alcuni servizi aveva per titolo “Coordinatore di servizi”, e devo ammettere che l’elemento mi lascia stupito. “Per me è un elemento di chiarezza e trasparenza: inutile cercare di vendere in maniera sbagliata la posizione al candidato partendo dalla scrittura di un’offerta che dipinge una realtà più rosea di quella che verrà poi toccata con mano. Preferisco avere un numero minore di candidature, ma più consapevoli, e scelgo volutamente di non parlare un linguaggio fancy.”

Se menti mi dimetto: il senso dei millennial per le offerte di lavoro

Il tema della trasparenza e della chiarezza fin dalla scrittura dell’offerta di lavoro è centrale anche nello scambio che ho con Gabriele Parolai, HR Manager di M.A.I.O.R. (realtà dedicata allo sviluppo di software per l’ottimizzazione delle risorse delle aziende di trasporto pubblico).

“Operiamo in un ambito molto tecnologico, le cui regole sono state di fatto stravolte negli ultimi due anni. Il nostro candidato tipico, oltre a essere molto giovane, è caratterizzato dalla consapevolezza di essere assai richiesto dal mercato del lavoro: proprio per questo motivo un’offerta che promettesse qualcosa che poi non verrà riscontrato nella realtà avrebbe effetti molto negativi nel breve-medio periodo; tipicamente le dimissioni.”

“Operiamo a stretto contatto con molte realtà universitarie, cercando di intercettare i nostri futuri collaboratori ancora prima del termine del percorso di studi e ricorrendo alle offerte con meno frequenza di un tempo. Noto nei millennial una forte attenzione all’ambiente di lavoro, alle modalità di comunicazione e di interazione adottate in azienda: nella selezione deve avvenire una scelta reciproca, e se il selezionatore prova a vendere fuffa ne pagherà il prezzo. Le offerte che pubblichiamo sono spesso piuttosto generiche, il mio approccio è capire se al candidato possa piacere l’azienda prima ancora di ragionare sulle effettive competenze.”

Al termine di questi confronti, non sono sicuro di essere riuscito a spiegare perché certe offerte di lavoro sono davvero scritte in maniera strana. Penso però di poter dire che, anche se una certa distanza tra formazione e lavoro è ancora percepita, generalizzare è di certo sbagliato. Altri approcci sono possibili, e di fatto già attivi, forse spinti da chi è riuscito a guardare oltre il confine piuttosto limitante del “c’è questo problema, ma non sappiamo come affrontarlo”.

Altro elemento rivoluzionario è sentir parlare della chiarezza e della trasparenza come veri e propri pilastri della fase di selezione: chiunque le definirebbe fondamentali, ma forse sull’aspetto pratico c’è ancora da lavorare. A partire, perché no, dal comunicare in maniera chiara e comprensibile cosa si sta cercando, senza dimenticarsi del chi.

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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