Basterà un Roadjob per curare Lecco?

Sono arrivato nell’area lecchese undici anni fa. Era il 15 gennaio del 2008 e la vita industriale e commerciale del territorio godeva, apparentemente, di buona salute. Vi era una costellazione di piccole aziende particolarmente attive e poche, medie e medio-grandi, che continuavano a far crescere il proprio business anche all’estero. Si sentivano echi lontani di […]

Sono arrivato nell’area lecchese undici anni fa. Era il 15 gennaio del 2008 e la vita industriale e commerciale del territorio godeva, apparentemente, di buona salute. Vi era una costellazione di piccole aziende particolarmente attive e poche, medie e medio-grandi, che continuavano a far crescere il proprio business anche all’estero.

Si sentivano echi lontani di possibili crisi, ma era difficile crederci quando tutto il distretto industriale continuava a marciare compatto, talvolta pure a passo sostenuto, senza farsi troppe domande. Gravando i magazzini di materiale che di lì a poco non avrebbe trovato acquirenti, acquisendo commesse che non sarebbero state confermate, e conseguentemente adeguando organici e macchinari per far fronte a un roseo futuro che si sarebbe mostrato, invece, nelle sue tinte più fosche.

I centri studi delle associazioni di categoria non avevano peraltro fornito elementi utili a capire che cosa stava per succedere e, come per gli eventi che riguardano le “deboli” previsioni in ambito atmosferico, a partire dal settembre del 2008 si era scatenata la tempesta perfetta.

 

Lecco dalla crisi alla ripresa

La strada che percorrevo ogni fine settimana tra Genova e Lecco risultava insolitamente veloce. I tir, i camion, i furgoncini e tutti i mezzi di trasporto merci non facevano più parte del brulicante e caotico mondo autostradale.

Le aziende, e conseguentemente tutto ciò che ruotava intorno a esse, avevano subito una sorta di collasso commerciale, che alle prime battute appariva del tutto inspiegabile: una sorta di magia nera del sistema finanziario internazionale, che nel frattempo franava sotto il suo stesso peso. Quello determinato dalla costruzione di improbabili business, determinati da spavalde modalità di concessione del credito o dall’acquisto dei cosiddetti titoli tossici e da tutte le altre azzardate e creative operazioni a rischio.

Il distretto Lecchese riceveva un duro colpo. Le aziende più piccole e quelle comunque meno strutturate finanziariamente erano costrette a chiudere, lasciando per strada molti lavoratori ancora incapaci di rendersi conto della loro situazione del momento, dato che pochi mesi prima gli venivano richiesti straordinari e ora si trovavano fuori dai cancelli perché l’azienda non aveva più commesse, e non poteva far fronte ai debiti che aveva contratto per inseguire l’illusione di una crescita rivelatasi un baratro.

Passati circa sette anni dall’incubo, nei quali nel frattempo si concretizzava un’ulteriore spirale di eventi negativi che impoveriva il territorio, si sono palesati, anche in questo caso in un ristrettissimo lasso di tempo, i sintomi benefici di una ripresa rapida e improvvisa che ha messo a dura prova la reattività delle aziende, appena uscite dalle sventure del settennato nero. Oggi ci troviamo con un distretto in pieno fermento: alto tasso di occupazione, un business vigoroso, aziende nuove o ristrutturate e un mercato nazionale e internazionale profondamente mutato. In questo contesto, facendo riferimento anche al precedente periodo economico, come ci si deve e ci si dovrà muovere per ottenere risultati soddisfacenti e duraturi?

È ovvio che non esistono ricette ottimali e univoche. È comunque imprescindibile analizzare alcuni aspetti del tessuto economico e sociale di quest’area per capire lo stato delle cose, e le evoluzioni che un territorio così importante per le politiche industriali italiane deve considerare.

 

Produttività a discapito della cultura del lavoro

Il mio mestiere è quello di ricercare soluzioni appropriate nel campo delle risorse umane. È del tutto evidente che il mio primo interesse si rivolga proprio a questo settore, e all’importanza che hanno proprio le risorse umane nei vari processi di cambiamento che pervadono le nostre aziende ed i nostri territori.

Ho frequentato a lungo l’ambiente confindustriale locale facendo parte del Gruppo metalmeccanici e del Comitato HR. Le tematiche affrontate, fatti salvi alcuni momenti tecnici di approfondimento relativi a modifiche più o meno sostanziali dell’apparato normativo sul diritto del lavoro, o a rinnovi contrattuali nazionali che hanno comportato la necessità di riflessioni particolari, non sono mai state rilevanti ai fini di una volontà ferma e decisa di confronto per il cambiamento.

Il senso dell’individualità profonda del sistema aziendale volto alla difesa di particolarismi di parrocchia ha prodotto altrettanti modelli di perniciosa, ristretta consorteria tra sigle sindacali spesso divise. Lavoratori che mirano a traguardare senza troppi danni un’apatica quotidianità, e istituzioni lontane da problematiche che apparentemente non hanno una valenza diretta col voto cittadino.

Tale ambiente, nel tempo, ha provocato un collasso culturale di cui stiamo facendo le spese a livello sociale. Al sociale è strettamente connesso a livello economico, in una spirale infinita che può essere spezzata solamente per mezzo di un potente meccanismo di rottura che blocchi la discesa e inneschi la risalita lenta ma inesorabile di un modello culturale vincente.

L’eccessivo empirismo con cui da sempre viene contrassegnata questa parte della Lombardia, da un lato, ha prodotto accelerazioni repentine senza però lasciare il solco. Così ha mostrato la sua fragilità che, in un contesto in cui il pur mutevole mercato non ha generato palingenesi significative nei processi produttivi, e quindi nelle modalità di fare business, è riuscita a sopravvivere creando reddito, impoverendo però ancora una volta l’aspetto culturale. Dall’altro lato ha costruito la sua fortuna sulle sabbie mobili della mancanza di progettualità e dell’impreparazione a nuove sfide, anche nel campo della ricerca e sviluppo.

Il risultato? Al momento della vera sfida il distretto industriale si è piegato su se stesso. La tenacia di questo tetragono empirismo ha comunque consentito di riprendere agevolmente le attività nel momento in cui le condizioni economiche sono migliorate. Ora si tratta di trovare un modello di sviluppo adeguato, che abbia le fondamenta nel cemento armato della cultura, ampiamente intesa, e dell’innovazione.

Non esiste un vero network del distretto industriale, e stenta a prendere piede la formazione, non tanto nella sua più ristretta accezione addestrativa (qui abbiamo fatto dei passi avanti), quanto nella sua forma più allargata di creatività e di autonomia di pensiero, pur nel rispetto delle necessarie strutture gerarchico-funzionali esistenti in ogni organizzazione aziendale.

 

Roadjob 2018: il futuro nella formazione e nella condivisione delle competenze

Partendo da queste riflessioni è stato avviato il 12 ottobre un evento intitolato Roadjob 2018: Industry 4.0. Il mondo del lavoro in un giorno.

Tramite questo momento comunicativo, svoltosi presso il Politecnico di Lecco alla presenza di circa 300 operatori del mondo della scuola, delle aziende, delle istituzioni, dell’associazionismo e delle professioni, si è data la stura a una riflessione collettiva su come affrontare con successo le sfide di questa nuova era industriale, puntando fortemente proprio sul networking e sul far sistema. Si è messo l’accento sull’importanza di preparare adeguatamente figure professionali all’altezza di automazioni e processi di lavoro necessariamente più sofisticati, facendo risaltare peraltro l’aspetto delle soft skill come veicolo per inserirsi efficacemente in questa realtà liquida che ha come unico elemento solido il substrato culturale di partenza.

In questo contesto saranno protagoniste tutte le parte sociali, che pertanto dovranno studiare (mai termine fu più appropriato) formule innovative di interlocuzione, cercando quindi di costruire percorsi di interesse che vadano ben oltre agli aspetti di economia minuta. Essere protagonisti significa uscire dagli schemi e riproporsi senza abbandonarsi alla propria zona di comfort.

Sulla scia dell’evento Roadjob si è avviato un embrionale tessuto di cooperazione su progetti che hanno respiro territoriale, e che quindi coinvolgono tutta la platea degli interessati consentendo di realizzare attività che abbiano un riscontro concreto per la comunità. Aziende virtuose hanno già avviato modelli di razionale inserimento di giovani con specifiche caratteristiche, in particolare nell’area delle operations, e più recentemente hanno deciso di avviare un percorso complesso ma di sicuro interesse nell’ambito commerciale.

Queste iniziative e altre, particolarmente importanti e ben indirizzate, potranno diventare patrimonio di tutti, generando un tessuto connettivo di trasmissione di conoscenze. Questo creerà un serbatoio di competenze adeguate alle necessità delle aziende, che avranno avviato innovazioni di processo.

Il concetto di sistema che si consoliderà in questo modo, infine, ci porrà al riparo da turbolenze di mercato anche particolarmente invasive.

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