La lucida rilettura della pubblica amministrazione dalle parole di Tito Boeri: è urgente lavorare sulle competenze, tentare innesti dal settore privato, insistere sulla terzietà.
Dipendenti pubblici, quindi fannulloni. Andiamo piano coi (pre)giudizi
Maurizio Petriccioli, segretario CISL FP: “Insensato l’odio per i dipendenti pubblici: è guerra degli ultimi contro i penultimi. Va rafforzata la loro autonomia”.
C’è un assunto assolutamente da sfatare: il pubblico impiego come genesi di tutto quanto connota di negativo la burocrazia. Il punto più alto lo si raggiunge al pensiero che questo esercito di fannulloni ha delle pretese, delle richieste. Come se lavorare nel pubblico non fosse nemmeno un lavoro.
Maurizio Petriccioli, Segretario Generale della CISL FP, questi dipendenti pubblici da sempre sotto accusa: un falso mito oppure c’è del vero?
Qualche giorno fa ho parlato di guerra degli ultimi contro i penultimi. Di questo si tratta. Non c’è cosa peggiore di dover constatare che ad alimentare questo conflitto siano opinionisti televisivi che hanno grandi audience alle loro spalle, giornalisti affermati, politici nazionali e locali, rappresentanti delle istituzioni e dei corpi intermedi a tutti i livelli. È la governance di questo Paese nel suo complesso che sta soffiando sul fuoco del conflitto sociale, in una fase in cui si dovrebbe invece ricercare la coesione. L’Italia è il Paese in cui l’evasione fiscale vale il 12% del PIL e supera quota 100 miliardi, ma il problema sarebbe il dipendente pubblico. Chi ragiona in questi termini è semplicemente in malafede.
Il sindacato insiste perché ai dipendenti della PA venga fornita una formazione degna di questo nome. Il personale è adeguatamente formato e professionalmente idoneo?
Come CISL FP noi abbiamo sempre sostenuto la necessità che gli enti tornino a farsi carico in maniera adeguata della formazione del personale. Cittadini e imprese, nel XXI secolo, hanno bisogni sempre più articolati a cui è impossibile dare risposta senza formazione, e soprattutto con dotazioni organiche e strumentali ferme al palo da ormai troppi anni. Un vero rilancio della PA sarà possibile solo seguendo due indirizzi. Il primo, valorizzando l’esperienza e le conoscenze pratiche acquisite dal personale che è già in servizio e che custodisce un patrimonio di conoscenze, nozioni e relazioni utili a chi entrerà nella PA nel prossimo futuro. Il secondo, un grande piano assunzionale che non deve essere indiscriminato, ma deve partire dall’analisi dei fabbisogni e dalle uscite per pensionamento. Non basta solo coprire il turnover, bisogna garantire formazione continua al personale in servizio e assumere personale col know how necessario a rispondere alle nuove sfide che la PA ha davanti a sé.
Il Paese ha bisogno di un sostegno adeguato all’emergenza da parte della PA. Che cosa appesantisce la macchina burocratica al punto di essere considerata il problema dell’Italia?
Per rispondere a questa domanda vorrei fare un esempio: l’INPS ha erogato 12 milioni di prestazioni CIG in sette mesi per 6,5 milioni di lavoratori. Il dipartimento antifrode ha individuato oltre 3.000 casi di aziende fittizie che hanno provato a incassare la CIG con false assunzioni. Per rispondere ai bisogni dei cittadini e contestualmente svolgere una funzione di controllo, il 93% dei dipendenti in smart working dell’ente hanno dovuto essere sempre reperibili e operativi, distribuendo da marzo a settembre 2020 qualcosa come 26 miliardi di euro stanziati dai decreti Cura Italia, Rilancio e Agosto a 14 milioni di persone. Sono numeri che testimoniano, semmai, un impegno straordinario della nostra Pubblica Amministrazione. Un impegno che si è realizzato a fronte delle uscite per pensionamento di questi anni, che hanno determinato una perdita secca di migliaia posti di lavoro nel più grande ente previdenziale d’Europa. L’INPS, a causa dei tagli imposti dal legislatore, ha riconsegnato allo Stato, tra il 2012 e il 2018, 4 miliardi e 312 milioni di euro sottratti al funzionamento degli uffici. In questa maniera si migliora la PA? Se vogliamo un complesso di servizi pubblici efficace ed efficiente, che sia in grado di rispondere con velocità durante le emergenze come quella che stiamo vivendo, abbiamo bisogno prima di tutto di tornare ad assumere e a investire nel pubblico, rovesciando quei paradigmi che hanno finito per impedire ai lavoratori di essere protagonisti del cambiamento e della crescita della PA.
Come giudica la classe dirigente della PA? È all’altezza di un Paese complesso come il nostro?
I nostri dirigenti e professionisti pubblici possono divenire il valore aggiunto della PA, ma per riuscirci, ed è la stessa impostazione che stiamo tenacemente perseguendo nella tornata contrattuale che riguarda la dirigenza, debbono essere coinvolti maggiormente nella programmazione e nella gestione dei cicli organizzativi, rafforzando la loro autonomia piuttosto che essere chiamati, come spesso purtroppo accade, a eseguire ciò che la politica decide e dispone, svilendo tra l’altro la netta distinzione fra indirizzo politico-amministrativo e attività gestionale. Queste storture, che talvolta si manifestano all’interno degli enti nei quali l’ingerenza politica è molto forte, portano a una vera e propria paralisi amministrativa che penalizza il Paese e i cittadini.
Lo smart working ha portato in dote alla pubblica amministrazione una serie di vantaggi: meno spese, straordinari, buoni pasto. E, paradossalmente parlando, si lavora di più rispetto al lavoro in presenza. Qualcosa non torna con questi fannulloni?
Lo smart working può divenire uno straordinario strumento di organizzazione del lavoro, ma nel nostro Paese è stato implementato a tappe forzate a causa dell’emergenza COVID-19. Il dipendente, molto spesso, si è trovato a non avere nessuna forma di tutela e di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, oltre a dover organizzare il lavoro da casa. Oltre all’emergenza, credo che le problematiche siano state causate dalla mancanza di una vera cultura del lavoro da remoto e da una difficoltà di gestire ed accettare il cambiamento di alcuni dirigenti. Ad ogni modo ritengo che questa sperimentazione, in parte, resterà strutturale una volta superata l’emergenza: in molti enti pubblici, infatti, a fronte di una riduzione dei consumi e quindi dei costi di gestione degli enti, è aumentata notevolmente la produttività e la qualità della vita delle lavoratrici e dei lavoratori, grazie alla riduzione degli spostamenti casa-lavoro. Vi sono le condizioni per cambiare in meglio la vita di chi lavora, ma bisogna farlo affrontando le problematiche emerse quest’anno con l’implementazione del lavoro agile. Ad oggi il legislatore sta procedendo unilateralmente, per via legislativa. Senza sfruttare gli strumenti propri della contrattazione di secondo livello sarà davvero complicato implementare lo smart working cogliendo le specificità di ogni ente.
L’esodo di migliaia di dipendenti della PA grazie a quota 100 ha ulteriormente indebolito la macchina burocratica. È stata una norma contestata a lungo in ambienti politici ed economici. Qual è il punto di vista della CISL?
Siamo a favore di quota 100, misura che non abbiamo affatto osteggiato, ma abbiamo sempre denunciato la mancanza di un contestuale percorso assunzionale da affiancare a una misura che rischia di depauperare ulteriormente gli organici negli enti. Nel giro di pochi anni si prevede un’uscita dal lavoro pubblico di 500.000 persone. In molti enti centralizzati l’età media supera abbondantemente i 54 anni. Dobbiamo integrare oggi i giovani all’interno della PA affinché possano lavorare fianco a fianco di chi ha maturato anni di esperienza nelle amministrazioni pubbliche. Parliamo di assunzioni mirate su specifiche professionalità in grado di rilanciare il percorso di digitalizzazione di cui necessita il comparto pubblico. È un processo che non possiamo più permetterci di rimandare.
Tanta gente che rischia di perdere tutto guarda sempre con più diffidenza al reddito garantito del pubblico impiego. Avvertite questa pericolosità sociale, dopo i casi di aggressioni a dipendenti pubblici nei mesi scorsi?
Sì, la situazione sta diventando molto grave. È davvero grottesco ritenere “privilegiata” una persona che vive solo del proprio salario. Non dimentichiamo che i dipendenti pubblici erogano, assieme ai pensionati, più del 90% delle risorse che entrano nell’erario a sostegno del sistema Paese; risorse che oggi sono investite in sanità per salvare vite umane e sono impegnate anche a difendere le categorie più fragili. Non voglio fare una polemica, ma lanciare una provocazione sì: perché non iniziamo a tassare i grandi patrimoni, magari chiedendo un contributo una tantum in questa fase drammatica che il Paese sta vivendo? Perché non si interviene in maniera chirurgica sul paniere dell’Iva, riducendola o azzerandola su beni di prima necessità e aumentandola in altri settori? Perché, soprattutto, non iniziamo a combattere una guerra senza quartiere ai grandi evasori/elusori fiscali, criminali che tolgono gettito che potrebbe essere investito nel settore sanitario e scolastico? Ci sarebbero tante sacche di criminalità e di privilegi enormi da colpire. Per quanto mi riguarda, soprattutto in tempi così difficili, vale ancora il motto: “Chi ha di più paghi di più!”, una formula che dovrebbe mettere d’accordo i piccoli commercianti, le partite Iva, i lavoratori dipendenti pubblici, privati e i pensionati.
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