Caporalato, la finta ignoranza di chi lo asseconda

Imprenditori che in virtù della logica del mero profitto accettano, più o meno consapevolmente, di allearsi con chi persegue strategie produttive ed industriali selvagge. In Italia esiste una filiera produttiva che sfrutta la manodopera rurale come merce di scambio per connivenze poco chiare. Braccianti, italiani e stranieri, stagionali e non, sfruttati e malpagati, che si dedicano al lavoro nei […]

Imprenditori che in virtù della logica del mero profitto accettano, più o meno consapevolmente, di allearsi con chi persegue strategie produttive ed industriali selvagge. In Italia esiste una filiera produttiva che sfrutta la manodopera rurale come merce di scambio per connivenze poco chiare. Braccianti, italiani e stranieri, stagionali e non, sfruttati e malpagati, che si dedicano al lavoro nei campi (raccolta del pomodoro, dell’uva, delle olive). Il caporalato è una piaga che purtroppo attanaglia diverse centinaia di operai agricoli che, pur di portare a casa i soldi per la sopravvivenza, lavorano in media 12-14 ore al giorno, con salari bassissimi (anche meno di 3 euro all’ora), su cui si applica perfino la “tangente”. Vivono in alloggi di fortuna e in condizioni igienico-sanitarie pessime.

Sdoganare le logiche che alimentano una economia malata

Per Alfonso Pascale, presidente del CeSLAM (Centro Sviluppo Locale in Ambiti Metropolitani), il vero motivo per cui non si riesce ad annientare il caporalato è sicuramente la mancanza dei controlli su tutta la filiera che va dalla produzione alla trasformazione del prodotto industriale fino allo smistamento nelle catene alimentari. Ma i controlli non bastano se non si avviano nuove politiche agricole europee e nazionali e percorsi di sviluppo locale per accompagnare gli agricoltori e le filiere produttive verso la vera e sana imprenditorialità e l’innovazione. Agricoltori che, in talune occasioni, prestano il fianco volontariamente ad interessi collusi; in altre tacciono, ignorano (o fanno finta di non sapere) quali siano i retroscena della catena produttiva. Secondo il terzo rapporto “Agromafie e caporalato” stilato dalla FLAI/CGIL, a questa filiera ‘malata’ collaborano tutti: caporali, imprenditori, la grande distribuzione, le organizzazioni dei produttori. Tutti coesi nel portare avanti una politica industriale in cui tutte le informazioni sono confuse. Cosicché il consumatore, anello debole della catena, non comprende fino in fondo quale sia la reale provenienza dei cibi che acquista nei supermercati. Questo, nonostante i tentativi di apporre sui prodotti, bolli e certificazioni di qualità che, da soli, non bastano a stanare le ‘zone grigie‘, quelle in cui la soglia tra il lecito e l’illecito si assottiglia.

L’influenza della criminalità organizzata

Transcrime, autorevole centro di ricerca sulla criminalità transnazionale, ha stimato che in Italia sono 27 i clan malavitosi che hanno come settore principale le agromafie, la tratta di esseri umani finalizzata allo sfruttamento lavorativo e al caporalato; il riciclaggio di capitali illeciti attraverso il lavoro nero; gli investimenti industriali legati al ciclo della trasformazione; il racket e l’usura a danno degli imprenditori; la gestione della logistica e trasporto dei prodotti ortofrutticoli e alimentari di derivazione industriale; la gestione diretta dei mercati generali con l’obiettivo di condizionare la borsa dei prezzi; l’infiltrazione nella filiera della distribuzione e dell’export. «Se così stanno le cose, le aziende agricole che praticano il caporalato sono anche vittime della criminalità organizzata», spiega Pascale, studioso delle trasformazioni del sistema rurale nel corso dei decenni.

Rapporto ‘Filiera Sporca’: “Il caporalato serve alle aziende e comprime i costi”

Oggi la questione dello sfruttamento ha una estensione geografica più ampia. Non riguarda più solo le Regioni del Sud Italia, come Puglia, Basilicata, Calabria, Campania e Sicilia. Negli ultimi anni, il fenomeno si è diffuso a macchia d’olio anche nelle regioni del centro-nord, come Lazio, Lombardia, Piemonte e Veneto. Un quadro recente della situazione lo offre la ricerca Filiera Sporca, a cura di tre Associazioni (daSud, Terra, riavvia il pianeta e Terrelibere.org). Nel rapporto del 2016, infatti, emerge quanto lo sfruttamento dei lavoratori stagionali non riguardi solo i lavoratori stranieri, ma anche quelli comunitari. Ma la ricerca fa riflettere su un dato ancora più preoccupante: «Il caporalato serve alle aziende e comprime i costi, ma se domani sparisse sarebbe comunque sostituito da forme semi-legali di agenzie interinali e cooperative senza terra, come già avviene in molte zone dal nord a sud dell’Italia», si legge nella ricerca. Questa prospettiva ‘caporale-centrica’, che ignora il complesso della filiera, ha portato a soluzioni inadeguate: le tendopoli, i vertici in Prefettura, la ricerca di soluzioni tampone, i marchi di qualità per chi non sfrutta (come se fosse un comportamento da premiare e non un requisito di base) e le retate contro i caporali. Tutte azioni in se’ meritevoli ma che non abbiano portato a una soluzione del problema si evince nel rapporto.

Il caro prezzo del risparmio

Quando gli imprenditori agricoli si rivolgono al caporale sono quasi sempre consapevoli di ciò che stanno facendo. Sono a conoscenza del circolo vizioso che innescano. Sanno (forse non fino in fondo) quali sono i rischi economici, umani e sociali dello sfruttamento. «In recenti indagini sociologiche si è appurato che i braccianti punjabi, nell’Agro Pontino, sono costretti spesso a lavorare dalle 10 alle 14 ore al giorno (sabato e domenica compresi), per circa 3 euro l’ora, quando il contratto provinciale prevede 6 ore e 30 di lavoro giornaliero per circa 9 euro lorde l’ora di retribuzione. In termini economici, il risparmio sul costo del lavoro è del tutto annullato dai prezzi molto bassi imposti dalle industrie di trasformazione ai prodotti agricoli» aggiunge Pascale. Ma il risparmio economico ottenuto a breve termine, quegli imprenditori che si affidano al caporalato lo pagheranno caro in termini di scarsa qualità della filiera produttiva. Ciònonostante, ci si accontenta di investire sul prodotto industriale e di massa anziché differenziarsi e puntare sulle eccellenze. Forse perché mancano politiche agricole in grado di valorizzarle. «Gli aiuti diretti PAC, slegati dagli investimenti e dal sostegno a servizi aziendali d’interesse generale, hanno eroso la capacità imprenditoriale degli agricoltori che si sono adagiati in produzioni che subiscono la concorrenza di quelle dei Paesi emergenti. È questo il nuovo latifondo da rompere, sorto per effetto di politiche agricole sbagliate e di comportamenti rinunciatari, oltre che illegali, di più soggetti», continua il presidente del CeSLAM.

L’ignoranza di chi non vuole vedere

Le aziende che si rivolgono ai caporali, quindi, sono allo stesso tempo succubi e carnefici di un sistema produttivo malato spesso legato alle organizzazioni malavitose. Questo sistema è di fatto alimentato da misure statali ed europee (come gli aiuti al reddito senza finalità misurabili) che favoriscono un circuito assistenzialistico non sano e non incentivano gli agricoltori a rinnovarsi, ad avere il coraggio di cambiare rotta, ad investire sulla qualità, la diversificazione, la multifunzionalità. «Tutti gli attori istituzionali ed economici evitano di vedere la perdurante condizione di stagnazione e immobilità dell’agricoltura. Non manca solo la spinta a trovare le soluzioni tecnologiche e organizzative alla necessità di manodopera in quantità elevate in alcune fasi colturali. Si è erosa la capacità creativa degli agricoltori di introdurre nuove colture e di sperimentare attività diversificate nell’ambito dei servizi alle persone e alle comunità. Caporali e industrie di trasformazione assecondano questa regressione, trovandovi proprie specifiche convenienze», afferma Pascale.

Consapevolezza e partecipazione

Il DDL contro il caporalato  (fortemente voluto da Maurizio Martina, Ministro alle Politiche agricole) da solo non può aiutare a superare quel senso di impotenza e di rassegnazione che circonda la chimera della competitività. «Nonostante l’inasprimento delle pene e l’introduzione di nuovi strumenti, come la certificazione del lavoro di qualità, non si debellerà il fenomeno del caporalato se non si affronterà il fenomeno alla radice. La certificazione del lavoro di qualità rafforzerà ulteriormente le aziende agricole competitive, ma non indurrà le imprese invischiate nelle pratiche illecite e malavitose ad uscirne», chiosa il presidente del Centro Sviluppo Locale in Ambiti Metropolitani. Occorrono quindi task force che coinvolgano tutti gli attori: amministrazioni comunali, imprenditori, parti sociali, Terzo Settore e Centri di Ricerca e Sperimentazione. Uniti per sfatare la finta ignoranza di chi per anni ha girato la testa di fronte ad una economia agricola in forte stallo o ha raccontato sui media un’agricoltura che non esiste. «Tra il 2005 e il 2015 il valore della produzione agricola italiana è cresciuto solo del 14% rispetto al +22% in Europa.  I redditi agricoli sono aumentati solo del 14% rispetto al +40% in Europa. Nello stesso periodo c’è stata una perdita di 100 mila occupati. Se si prende solo il dato dei primi mesi del 2016, sembra che molti giovani si siano insediati in agricoltura. In realtà, lo hanno fatto per accedere ai contributi della PAC per il primo insediamento, ma nel 95% dei casi si tratta solo di prestanome. Se si guarda all’intero decennio i giovani entrano ed escono dal settore con la stessa intensità. La crisi dell’agricoltura è pesante ed è dovuta alla mancanza di innovazione. Tale carenza è all’origine del caporalato», conclude infine Alfonso Pascale.

(Photo credits: radionbc.it)

 

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