C’era una volta la cooperativa emiliana

Rosso o bianco che sia, è in Emilia-Romagna che il modello cooperativo ha trovato il maggior sviluppo. Secondo i dati diffusi in occasione della Conferenza regionale della cooperazione nel luglio 2018, in regione si realizza un terzo del fatturato del sistema cooperativo nazionale con oltre 5.000 imprese, di cui il 20% femminili, che fanno registrare […]

Rosso o bianco che sia, è in Emilia-Romagna che il modello cooperativo ha trovato il maggior sviluppo. Secondo i dati diffusi in occasione della Conferenza regionale della cooperazione nel luglio 2018, in regione si realizza un terzo del fatturato del sistema cooperativo nazionale con oltre 5.000 imprese, di cui il 20% femminili, che fanno registrare una crescita dell’occupazione dell’1,5%, per oltre 242.000 addetti complessivi.

Come mai il territorio emiliano-romagnolo è stato ed è terreno tanto fertile per questo modo di fare impresa? Certamente la storia politica della regione ha inciso, ma si tratta solo di questo? E, soprattutto, la cooperativa è ancora una forma societaria adatta al mercato globale?

Ne parliamo con Luciano Sita, uno dei protagonisti della storia dell’impresa cooperativa dell’Emilia-Romagna, oggi dedito al volontariato. Sita è stato tra i fondatori di Conad negli anni Sessanta, società dove è rimasto dal 1962 al 1989 diventandone direttore generale, per poi passare alla guida di Granarolo dal 1991 al 2009 traghettando il Gruppo in uno dei momenti cruciali della sua storia.

 

Come mai l’Emilia-Romagna è stata terreno fertile per il modello cooperativo?

L’Emilia-Romagna è un territorio molto reattivo alla presenza della forma cooperativa, perché la filosofia del fare insieme è nel dna delle persone e ne caratterizza il sistema economico e sociale. Un clima che ha facilitato tutte le forme d’impresa per la voglia diffusa di fare bene, di guardare al futuro investendo in ricerca e innovazione e di migliorare la condizione sociale di tutti i cittadini. Questo atteggiamento ha favorito la crescita di tutto il tessuto sociale e ha reso questo territorio uno dei più sviluppati d’Europa.

In generale da cosa è nata l’esigenza di questa forma d’impresa?

La cooperativa affonda le proprie radici nell’Ottocento, quando le persone hanno compreso l’efficacia dell’aggregazione sotto la spinta di obiettivi e valori comuni che comportassero il miglioramento della propria vita e della società in generale. La cooperazione rappresenta la filosofia, tuttora valida, del “fare assieme”, condizione essenziale di tutta l’umanità per evolversi. Difficilmente il singolo individuo, per quanto capace, può riuscire ad affrontare i problemi da solo. Questo modus operandi si è diffuso in maniera più o meno strutturata in tutto il mondo, ed è stato applicato in tanti campi dell’attività umana, dall’agricoltura all’industria ai servizi. In alcuni settori la forma cooperativa è una delle modalità che va per la maggiore per affrontare le sfide del futuro. Pensiamo all’imprenditore agricolo, che se non si rende partecipe della catena del valore resta isolato e senza prospettive, oppure ai lavoratori che si uniscono in cooperative per affrontare le crisi aziendali. Va però anche detto che, come ogni impresa, la forma cooperativa, anche se riesce a resistere più a lungo, non è certo immune all’andamento generale dell’economia; si pensi ai tanti fallimenti nel settore delle costruzioni. E non va nemmeno dimenticato che, come in tutte le forme d’impresa, la differenza la fanno sempre le persone e che non sempre i dirigenti eletti dai soci sono stati all’altezza del ruolo assegnato. Alcuni dirigenti hanno fatto grandi le cooperative, mentre altri si sono ubriacati di potere.

Il modello cooperativo è adatto per l’attuale e per il futuro mercato globale?

La rapidità con cui le nuove tecnologie stanno spingendo al cambiamento del mondo produttivo e del mercato costituisce una sfida per tutte le imprese, ma in particolare per le cooperative che hanno una gradualità di evoluzione che può non essere sufficientemente rapida per stare al passo con i tempi. La cooperativa corre il rischio di rispondere troppo lentamente, perché non sempre dispone di fondi necessari per nuovi investimenti o di risorse umane competenti per affrontare questi cambiamenti. Se non si apre rapidamente all’ingresso di nuove competenze rischia di soccombere nella competizione con nuovi soggetti che stanno rivoluzionando le modalità di acquisto e di distribuzione delle merci.  Poi in certi settori economici soggetti a una globalizzazione complessiva c’è un limite oggettivo allo sviluppo del sistema cooperativo, per il volume di capitali necessari e perché richiedono strutture aziendali complesse. Non è un caso che non ci siano cooperative nei comparti tecnologico e automobilistico. La cooperazione risulta idonea alle filiere che esprimono alla base il reale interesse dei soci a dare valore alla propria produzione, più di quanto potrebbero fare muovendosi in maniera autonoma, come nel settore agroalimentare.

 

Lei è stato uno dei protagonisti della storia della cooperazione del settore agroalimentare in Emilia-Romagna, prima in Conad e poi in Granarolo. In particolare, durante la sua dirigenza, Granarolo ha assunto un assetto societario unico nel panorama delle cooperative italiane, che vede i soci cooperatori proprietari della Spa del Gruppo. Ripercorriamo insieme queste due esperienze e soprattutto gli aspetti innovativi che le hanno caratterizzate.

Per quanto riguarda Conad, sono rimasto l’unico testimone vivente della nascita di una delle maggiori realtà distributive italiane. Conad è stata la prima cooperativa di negozianti associati che ha aperto un supermercato in anni in cui si facevano le lotte tra dettaglianti e supermercati. In Granarolo invece ho avuto la fortuna di vivere un momento storico della società. Sono entrato in azienda all’inizio degli anni Novanta, e anche lì il punto da cui partire era lo sviluppo delle imprese agricole dei soci, poiché la formula della stalla di piccole dimensioni che produce latte era destinata a scomparire. Granarolo è stata l’impresa che ha aiutato i contadini a fare della stalla l’attività principale ritirando il latte di tutti i soci. Al contempo, avendo sempre più latte, la società aveva bisogno di incrementarne la commercializzazione anche diversificando la produzione dei derivati. La criticità è consistita nel fatto che non potevano essere i soci a investire, perché già lo stavano facendo nelle loro stalle; quindi il grande cambiamento è consistito nello scindere la cooperativa di produttori in una società di capitali a cui è stato conferito il marchio Granarolo, creando le condizioni perché i produttori stessi ne fossero i proprietari. Così la Spa Granarolo è diventata il soggetto che opera sul mercato, commercializzando la materia prima che i soci conferiscono alla cooperativa Granlatte proprietaria della Granarolo. Non nego che questo passaggio attirò all’inizio le ostilità dei teorici della cooperazione, ma ne difendo l’identità nel senso che non ha snaturato il modello cooperativo, anzi, ma ci ha permesso di trovare i capitali necessari allo sviluppo. Tre sono stati gli investimenti che hanno reso Granarolo un’azienda nazionale nonostante la contesa con la Parmalat di Tanzi e la Eurolat di Cragnotti (fallite): l’acquisto della Sail di Bari, della Centrale del latte di Milano, contesa dalla Yomo, poi a sua volta salvata da Granarolo.

Le cooperative sono spesso investite anche da numerosi scandali e celano anche sistemi di sfruttamento lavorativo dei soci.

Ci troviamo di fronte a un mondo cooperativo che soffre della presenza di finte coop, il cui unico scopo è sfruttare i lavoratori, o peggio, sviluppare intrallazzi affaristici di dubbia natura. È fondamentale un severo intervento legislativo per salvaguardare la bontà del sistema. Gli appaltatori che subappaltano certe attività marginali a basso valore aggiunto riescono a essere competitivi sfruttando la gente, e questa non può rappresentare la prospettiva della cooperazione. Sono situazioni da abbattere, in cui non sono i lavoratori soci che chiedono di fare cooperativa, ma è l’imprenditore che la impone. Sono delle devianze diffuse che vanno estirpate con la collaborazione tra istituzioni, sindacati e lavoratori, perché quando c’è falsa cooperazione c’è anche qualcuno che la accetta e se ne approfitta.

 

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