Il futuro è degli sbirri veggenti (ma aiutati dal computer)

Perennemente infestato da inchieste giudiziarie e liti sulla leadership, arrovellato da polemiche croniche su primarie e leggi elettorali, il dibattito politico italiano da decenni stenta a misurarsi seriamente con i grandi trend economico-sociali che di solito vengono anticipati dai paesi anglosassoni. Il politico medio italiano, di solito poco incline ad occuparsi delle ricadute delle nuove […]

Perennemente infestato da inchieste giudiziarie e liti sulla leadership, arrovellato da polemiche croniche su primarie e leggi elettorali, il dibattito politico italiano da decenni stenta a misurarsi seriamente con i grandi trend economico-sociali che di solito vengono anticipati dai paesi anglosassoni. Il politico medio italiano, di solito poco incline ad occuparsi delle ricadute delle nuove tecnologie, sembra aver capito in zona Cesarini l’importanza dell’industria 4.0 e al contempo appare stranamente interessato, forse temendo la concorrenza dei sindacati, al tema delle app e dei robot che fregano il lavoro. Sarà per via della lotta ad Uber e ai pony di Foodora o dell’approssimarsi dell’auto senza pilota, il cui impatto devastante sulla vita quotidiana e sul mondo del lavoro è in grado di intuire anche un bambino. Pochi invece (con l’eccezione dell’ex candidato sindaco di Milano Stefano Parisi e di alcuni grillini a livello locale) sembrano aver percepito la portata del cosiddetto Predictive Policing, ossia quell’insieme di nuove tecnologie che consentono alla Polizia di prevedere in quali zone della città potrebbero verificarsi dei reati e tentare se non proprio di anticiparli almeno di arrivare in tempo.

Lo scenario, lo diciamo subito, non è quello del famoso film Minority Report dove si arrestano gli individui ancor prima che diventino criminali. Qua parliamo in maniera più concreta di due software che di fatto si dividono il mercato della previsione dei crimini nelle principali città americane: Predpol (Los Angeles e altri 60 dipartimenti) e Hunchlab (Philadelphia, Miami, St Louis). Il meccanismo funziona così: si immettono nel programma una serie di cosiddetti big data che vanno dalle previsioni del tempo agli eventi sportivi, dalle fasi lunari al numero di bar, ristoranti e banche, dall’illuminazione pubblica alla densità abitativa, dallo storico delle rapine e degli omicidi alle fermate di bus e metrò. Un sofisticato algoritmo elabora queste variabili milioni di volte e restituisce ogni giorno mappe cittadine dove compaiono dei punti rossi (hot spot) che indicano ai poliziotti le zone e anche gli orari dove è possibile/probabile che si verifichi un crimine. Lo strumento, grazie anche al marketing aggressivo delle società sviluppatrici, è diventato molto popolare in America e comincia ad essere sperimentato anche in Europa (Kent, Gran Bretagna). La premessa di chi lo vuole adottare è l’uso migliore delle risorse delle forze dell’ordine e con i chiari di luna delle prossime manovre economiche c’è da aspettarsi che anche nella nostra prossima campagna elettorale qualche leader di partito tiri fuori dal cilindro il coniglio del Predictive Policing. Diciamo subito che nonostante le dichiarazioni entusiaste dei programmatori, non c’è consenso tra i sociologi sulla validità dei dati che confermerebbero un’effettiva riduzione del crimine nelle città dove questi metodi vengono applicati. Più concreti e già evidenziati sono invece i rischi. Il primo è che questi software altro non servano che a profilare le minoranze considerate, a torto o a ragione, più propense a delinquere: neri, ispanici e musulmani.

Fermiamoci a riflettere su casa nostra: che risultato avremmo applicando un programma del genere in una città del Nord-Est? Gli hot spot da tenere d’occhio e dove concentrare la Polizia coinciderebbero forse con i quartieri abitati da immigrati nordafricani, cittadini rumeni o magari italiani provenienti da quelle regioni dove prospera mafia e camorra? E come la mettiamo con i “falsi positivi”, ossia quei quartieri dove non c’è spaccio e delinquenza semplicemente perché sono totalmente in mano alla grande criminalità organizzata che controlla il territorio meglio della Polizia in Svizzera?

Ci sono poi due altri tipi di rischio che forse immediatamente sfuggono ma che non vanno sottovalutati.

Il primo è che con questi metodi prevalga la tentazione di garantire la sicurezza soltanto annientando i criminali senza provare ad intervenire sulle cause che generano la delinquenza: povertà, disagio sociale, mancanza di lavoro, d’istruzione e di abitazioni decenti. Il secondo rischio è che prima o poi a qualcuno venga in mente di infilare nell’algoritmo di turno l’enorme mole di dati che ogni istante tutti noi produciamo sui social network: foto, notizie, tag, geolocalizzazioni. Si può fare, c’è già chi lo fa legalmente per ricerche di mercato e marketing politico con la cosiddetta etnografia digitale. Da qua ad un uso istantaneo, esteso e magari poco ortodosso, il passo è davvero breve.

Ma la domanda più appropriata da farsi forse è un’altra: esiste una via al Predictive Policing più rispettosa dei diritti e delle sensibilità dei cittadini/elettori? Forse sì e non occorre neppure andare troppo lontano a cercarla. Da oltre 7 anni la Questura di Milano utilizza il software Keycrime sviluppato in proprio dal cinquantaduenne assistente-capo della Squadra Mobile Mario Venturi. Keycrime non lavora sulla previsione ma sull’analisi del singolo reato commesso, per la precisione la rapina, tramite l’immissione dei dati relativi ai minimi dettagli di ogni episodio criminale avvenuto in provincia di Milano: ora, luogo, aspetto, linguaggio del corpo, segni particolari, voce e frasi pronunciate dal rapinatore. Risultato: dal 2008 al 2015 le rapine annue sono scese da 664 a 283. Una specie di tracciatore informatico di rapinatori seriali insomma che, oltre ad andare a ritroso nei reati, una volta arrestato un criminale in alcuni casi ha consentito alla Polizia, se non di anticipare le rapine, almeno di arrivare in contemporanea al malvivente. E scusate se è poco.

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