Cinesi made in Prato

Il nostro meridiano 0, a Prato, si chiama via Pistoiese. Una via lunga, anzi lunghissima, che da bambino a percorrerla tutta in motorino ti faceva pensare all’infinito: un’immensa linea dell’orizzonte che era come un continuo invito ad andare. Questa via, di cui in realtà era facile intuire quale potesse essere la destinazione finale, ti costringeva […]

Il nostro meridiano 0, a Prato, si chiama via Pistoiese. Una via lunga, anzi lunghissima, che da bambino a percorrerla tutta in motorino ti faceva pensare all’infinito: un’immensa linea dell’orizzonte che era come un continuo invito ad andare. Questa via, di cui in realtà era facile intuire quale potesse essere la destinazione finale, ti costringeva a superare perlomeno una dozzina di frazioni comunali, con i suoi circoli onnipresenti e i cartelli delle sagre paesane e rionali, e a fronteggiare lo stupore per il cambio delle targhe dell’auto all’approssimarsi della provincia limitrofa.

Attraversandola a bassa velocità avevi il tempo di scrutarlo a fondo, questo immenso patchwork di case e fabbriche, intervallato ogni tanto da negozi e da qualche parrocchia, dove nei piazzali antistanti gli oratori organizzavano le loro attività. D’estate, oltre a vederlo, lo potevi respirare nell’aria: un odore avvolgente e afoso di tessiture, roccature, filature, mischiato agli urli di bambini affacciati ai balconi per chiamare la mamma, che lavorava di sotto nello stanzone.

Vita e lavoro. Un connubio imprescindibile, per questa città; due facce inseparabili della stessa medaglia. Dove nelle altre città c’erano le lotte sindacali, a Prato gli operai facevano a gara per mettersi in proprio e tirar su ditta.

 

Prato e i suoi cinesi: un rapporto ricco e complesso

Oggi il nostro meridiano 0, che si chiama Zhongguo jie (La via della Cina, N.d.R.), ha cambiato nome ma non la sostanza. Basta passarci di domenica, quando tutto il resto della città sonnecchia o è assorta nel mantra del campionato di calcio, per essere invasi dal brulicare delle attività frenetiche dei negozianti, dei parrucchieri, delle tavole calde cinesi. Qui il tempo si è dilatato a tal punto che sembra si sia fermato: giorno e notte hanno linee di demarcazione meno nette e precise; il clacson delle auto suona libero e senza sosta; i neon delle scritte a caratteri cinesi richiamano alla mente scene tratte da Blade Runner.

È qui che bisogna stare, all’interno del patchwork che urbanisticamente prende il nome di Macrolotto zero, se vogliamo ricercare la storia di questa immensa comunità cinese – la più grande d’Europa – e cercare di capire che direzione prenderà; se vogliamo comprendere quali sono le possibilità di un’integrazione che non sia solo mera retorica, e quali le possibili cooperazioni.

Perché, per quanto conflittuale e drammatico sia stato e sia tutt’ora il rapporto tra Prato ed i suoi cinesi, ritengo che debba necessariamente essere svincolato dalla sola prospettiva economica. La città ha sviluppato legami tra le due comunità che pochi conoscono a fondo, e dei quali spesso i giornali evitano di parlare, preferendo riferire di illegalità, dumping, evasione. Tutte cose che esistono, non possiamo negarlo; ma si rischia di farli diventare i soli protagonisti di un film che contiene invece una pluralità di attori brillanti.

 

La mediazione culturale a Prato: l’esperienza della professoressa Liu Shan

Attori che tutto sono fuorché comprimari. Come la professoressa Liu Shan, classe ‘68, nata in una delle città più fredde della Cina, Harbin nella provincia dello Heilongjiang, rifugio un tempo dei russi bianchi che scappavano dalla bolscevizzazione dell’impero zarista. Liu Shan si diploma in pianoforte presso il conservatorio statale per poi venire in Italia vent’anni fa, assieme a un giovane imprenditore di Wengzhou conosciuto durante uno dei suoi concerti. L’idillio purtroppo svanisce presto, lasciandola da sola in una città che non conosce a dover provvedere a se stessa e al suo figlio piccolo.

Liu Shan non si perde d’animo, trova la forza di reagire e fa quello che nella sua indole le è più congeniale: comincia a insegnare. Nel 2004 fonda la sua prima scuola proprio nei dintorni di Via Pistoiese. All’inizio i bambini sono pochi; molti sono adulti con un basso livello di istruzione, soffrono di un profondo shock culturale e hanno scarse abitudini igienico-alimentari.

Il compito non era certo facile. Molti avevano orari di lavoro massacranti; pur volenterosi di studiare, si addormentavano e non riuscivano a seguire. Anche farsi pagare era complicato”, ci racconta Liu Shan. Lei va avanti per la sua strada e con lungimiranza capisce che ha bisogno di circondarsi di collaboratori capaci, magari proprio di giovani italiani, laureati che hanno voglia di provare a insegnare.

“Analizzando gli studenti della nostra scuola è possibile capire il grado di cambiamento della Cina negli ultimi 15 anni”, esordisce Alessandro Ferro, coordinatore degli insegnanti e primo collaboratore di Liu Shan. Lui, che aveva studiato per diventare orafo e che ha cominciato ad appassionarsi alla Cina attraverso la pratica del kung fu, ci racconta di come siano cambiati gli studenti.

“Con il tempo sono cominciati ad arrivare i bambini, che prima invece erano spesso costretti dai genitori a frequentare le elementari in Cina per poi tornare in Italia e iscriversi alle scuole medie con gravi ritardi e l’impossibilità di seguire le lezioni per molto tempo. Prima gli studenti che arrivavano qui avevano ricevuto una forte impronta ideologica nella loro istruzione cinese. L’impostazione marxista e l’isolamento culturale si facevano sentire. Oggi questo non avviene più, il dialogo con i nostri studenti è più semplice e molte barriere culturali sono venute meno.”

Adesso il Centro Internazionale di Educazione e Mediazione Culturale fondato dalla professoressa Liu Shan è una realtà importante, che ogni anno forma circa cinquecento studenti. Oltre ad Alessandro ci sono molti altri collaboratori e insegnanti italiani laureati in lingua cinese. Oltre alla lingua si insegnano ballo, canto e anche lezioni di musica e tai chi.

Il Centro Internazionale di Educazione e Mediazione Culturale fondato dalla professoressa Liu Shan

 

Cina chiama Italia. Attraverso la radio

Per Andrea Franceschini, invece, via Pistoiese è stato il punto di partenza di una riflessione che lo ha portato nel 2016 a fondare Radio Italia Cina, una radio web dedicata all’intrattenimento musicale e all’informazione, sempre in lingua cinese, con notizie locali e nazionali.

“La decisione è maturata a seguito delle mia partecipazione al Festival delle Luci, che per la prima volta nel 2015 ha cercato di creare un dialogo tra le due comunità attraverso la pedonalizzazione temporanea del Macrolotto zero, creando un percorso di eventi a carattere culturale. Parlando con gli amici cinesi mi sono accorto che molti erano i ritardi nella comunicazione di ciò che avveniva sul territorio, e questo non per disinteresse o mancanza di curiosità dei giovani cinesi, ma per mancanza di mezzi di comunicazione adeguati.”

Venendo incontro a questo bisogno, Radio Italia Cina si compone di una squadra di giovani speakers cinesi che progettano ed editano i loro programmi radiofonici, sotto il coordinamento attento di Andrea, che si occupa della supervisione e della formazione.

Anche per Andrea i primi anni sono stati quelli più complicati. Molti ragazzi cinesi non erano per niente a loro agio nel parlare alla radio; molti, nonostante fossero appassionati di musica, non usavano la radio, che in Cina ha avuto per ovvie ragioni una storia e uno sviluppo molto diverso dall’Europa, dove invece ha rappresentato fino dagli anni Settanta uno dei canali più liberi e sperimentali di comunicazione.

Oggi la radio sta riscuotendo grandi successi e picchi d’ascolto importanti presso tutte le città italiane a grande concentrazione di comunità cinesi, quali Roma, Milano, Napoli e, ovviamente, Prato.

 

 

 

Orientiamoci in Cina e la diffusione della cultura cinese

C’è poi chi, dopo averci vissuto per anni, la Cina l’ha finalmente ritrovata a Prato. È il caso di Claudia Rogialli, fondatrice, assieme a Isabel Shen e Matteo Checchi, dell’associazione culturale Orientiamoci in Cina, che ha l’obiettivo di promuovere la cultura cinese in Italia.

Proprio questa associazione, che ha appena concluso un importante scambio culturale tra il Liceo Linguistico Redi di Arezzo e la scuola HongRun di Shanghai, ha iniziato qui la sua attività organizzando gite culturali durante il capodanno cinese, portando gli altri toscani a conoscere la realtà cinese di Prato e mostrando il folkore e le tradizioni popolari del Paese orientale.

“La prossima sfida per la nostra Associazione”, ci racconta Claudia, “sarà proprio una grande attività di integrazione attraverso il cinema, coinvolgendo gli studenti italiani e cinesi dell’Istituto Dagomari di Prato. Un progetto al quale l’associazione sta lavorando assieme a diversi insegnanti, molti di loro con grande esperienza nell’insegnamento in ambienti multiculturali, e che avrà come fulcro della storia proprio il Macrolotto zero e Via Pistoiese… ehm, Zhongguo jie”, si corregge, scherzando.

 

Photo di copertina by https://www.pratosfera.com

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