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Civitanova cambia pelle
Le città di provincia cambiano pelle. Si spogliano progressivamente della staticità e della prevedibilità che le hanno caratterizzate fino a una manciata di anni fa, per abbracciare un dinamismo, una stratificazione sociale e quindi una conflittualità tra culture ascrivibili alle realtà più metropolitane. Il fenomeno è riscontrabile in quasi tutte le piccole città italiane. Tuttavia […]
Le città di provincia cambiano pelle. Si spogliano progressivamente della staticità e della prevedibilità che le hanno caratterizzate fino a una manciata di anni fa, per abbracciare un dinamismo, una stratificazione sociale e quindi una conflittualità tra culture ascrivibili alle realtà più metropolitane.
Il fenomeno è riscontrabile in quasi tutte le piccole città italiane. Tuttavia nelle Marche, regione policentrica per antonomasia, tali trasformazioni sembrano manifestarsi con maggior evidenza. In particolare sulla costa c’è una città, Civitanova Marche, che negli ultimi dieci anni è stata investita da un mutamento del tessuto sociale tale da farle assumere un carattere prototipo, anche per via delle dimensioni più ridotte.
La crisi economica, le migrazioni internazionali e intranazionali, ma anche il sisma del centro Italia del 2016, hanno fatto da acceleratori del cambiamento, facendola diventare la città più popolosa della provincia di Macerata con poco più di 42.000 abitanti. Così quello che in passato era uno dei centri con il reddito pro-capite più alto della regione, grazie a un ricco distretto calzaturiero che garantiva un benessere diffuso su tutto il territorio, dopo la crisi si è trasformato in un ambiente urbano decisamente più asciutto ma anche molto più complesso e culturalmente più vivace.
Laddove insisteva il conformismo tipico della città di provincia che sentiva di bastare a se stessa – e l’ostentazione della ricchezza si esprimeva in ogni fascia d’età prima di tutto attraverso i capi d’abbigliamento, gli accessori e le automobili esibiti come attestato di benessere – oggi ritroviamo uno spazio pubblico dove s’incontrano e a volte si scontrano le tante culture costrette al confronto.
Tunisini, marocchini, cinesi ma anche rumeni e polacchi. Una ricchezza della diversità che pare aver giovato soprattutto all’apertura mentale dei più giovani in termini di tolleranza e di accoglienza. Tra i banchi delle scuole, le seconde generazioni di migranti stringono amicizie e amori misti che poi vivono nel pomeriggio, lungo le vie del centro marinaro. I ragazzi della Generazione Z, iperconnessi e cresciuti in piena crisi, a un passo dalla maggiore età e con i piedi ben saldi a terra, vedono il loro futuro universitario e professionale fuori dai confini regionali.
Poi ci sono le fragilità, più o meno nuove, più o meno gravi, drammi individuali e famigliari. Borderline e minoranze, con le loro storie di emarginazione vissute tra il desiderio di essere accettati e l’autocondanna a rimanere se stessi, disinseriti e liberi.
Così, mentre i ragazzi si sforzano di creare punti di fuga costruttivi e condivisi attraverso il rap, il ballo hip hop, i graffiti e lo skate, si registra la capacità dei più vecchi di resistere, e in parte di adattarsi, a una società che ha polverizzato la famiglia e la loro struttura di riferimento.
Lungo i marciapiedi di questa metropoli in miniatura, che cerca di affrancarsi dal distretto calzaturiero attraverso il turismo estivo e il commercio, è possibile cogliere un piccolo mutamento antropologico che interessa ogni città di provincia italiana. Un’umanità posta di fronte a un tempo che si è fatto sempre più piatto, e obbligata a ridisegnare se stessa per sfuggire alla superficialità dell’intolleranza e dello stereotipo.
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