“Chi era appassionato di fotografia si è messo a disposizione per organizzare shooting e servizi fotografici, chi aveva la passione per la moda e le sfilate – soprattutto alcune di noi ragazze, perché la maggior parte degli abiti donati è da donna – si è messa a disposizione come modella o indossatrice, chi era bravo coi numeri e la logistica ha organizzato il database e lo stoccaggio dei vestiti, chi era più creativo si è dato da fare per il sito; insomma ce n’è per tutti. Tutto quello che vedete dal sito lo facciamo noi, siamo davvero noi, è tutto vero. Il regalo più grande è che ci divertiamo nel provare a ridare una dignità non solo ai vestiti ma ai messaggi della sostenibilità, li rendiamo concreti ogni volta che ci riuniamo, stiamo bene in mezzo a questo gruppo che si dà da fare e crede nel sogno di poter magari un giorno lavorare per Clothest insieme alle persone della Casa-famiglia. Io adesso sto per trasferirmi a Bologna per la laurea specialistica, ma certo non lascio il progetto.”
Allegra Carapelli si porta ogni giorno il mare della speranza dentro gli occhi azzurri con cui mi racconta chi è, cosa fa, cosa desidera. Ci vediamo al bar, lei un caffè e io un succo. Le chiedo se un’idea tanto nobile e sovversiva – e di rado i due aggettivi si tengono per mano – abbia messo le radici anche dove è nata, cioè a Montevarchi, o se l’aria di provincia soffoca ardori ed entusiasmi.
“Un po’ è vero, ci conoscono di più a Firenze o a Milano che non qui, ma proprio in questi giorni stiamo organizzando la prima sfilata in città per presentare ufficialmente Clothest. Sono giornate pienissime, infatti, anche di emozioni”.
Tra gli adulti che tengono le fila c’è anche Annalisa Rotesi, psicologa, una frangetta nera dritta come le cose che sanno dove andare. Si sente che ha a che fare con l’umano perché di tutto quello che si combina in Clothest lei rimarca il gesto della consegna, l’attimo in cui la camicetta di seta o la gonna di paillette o la giacca da uomo del matrimonio passano dalla mano del proprietario a lei.
“È un istante di sospensione, spesso quasi di imbarazzo, è il momento in cui le persone si staccano da qualcosa per loro prezioso e chissà cosa pensano o cosa temono. Io vado sempre di persona a ritirare abiti di questo genere, anche per creare un legame con le persone del territorio, e aspetto di poterlo prendere, non forzo mai il gesto. Oppure incontro quelli che mi mettono subito tutto in macchina, di fretta, senza fiato, come a volersene disfare il prima possibile per non correre il rischio di ripensarci. Donare una parte di sé sta anche in un gesto o in un oggetto, in un vestito, e ognuno di noi dona per ragioni diverse”.
Clothest è un miraggio dentro un sistema arido e dolente come la moda, è una rimessa in circolo di giovinezza non solo per i vestiti, ma per l’anima di chi dà e di chi prende. Andate sul sito clothest.it; poi aprite i vostri armadi e prima la mente; infine donate, meglio se glieli portate di persona, fatevelo un viaggio italiano verso quella Casa-famiglia che sta riscrivendo le regole dello spreco e del disagio.
C’è solo una raccomandazione che sta a cuore più di ogni altra ai volontari e ai fondatori: “Vi chiediamo di non donare mai abiti usati dentro i sacchi neri della spazzatura, ci capita spesso di riceverne”.
Oltre che di abiti superlativi, è tempo di superlativo rispetto.