Commercianti o commerciali?

Devono essere pochi al mondo i libri dedicati all’arte della vendita che nel titolo, o da qualche altra parte in copertina, siano privi di un come. Tutto è come, quando si tratta di convincere qualcuno a comprare; anche libri o articoli sulla seduzione – tra le massime attitudini alla vendita – si concentrano quasi esclusivamente […]

Devono essere pochi al mondo i libri dedicati all’arte della vendita che nel titolo, o da qualche altra parte in copertina, siano privi di un come. Tutto è come, quando si tratta di convincere qualcuno a comprare; anche libri o articoli sulla seduzione – tra le massime attitudini alla vendita – si concentrano quasi esclusivamente sul come. Visto da lì, tutto torna.

Il campo va subito sgombrato davanti alla questione “seduzione” perché il nostro cervello, sempre più stimolato a vivere di percorsi tracciati e già pronti, sta rischiando di perdere grandi occasioni nel ricostruirsi una sua semantica e un suo immaginario. Partiamo da qui.

Vendita e seduzione sono il testa e croce della moneta, l’una senza l’altra valgono la metà esatta del totale. La seduzione come vorrebbe farcela immaginare l’istinto va da una parte completamente opposta, che è quella della messa alla prova di quanto si possa essere abili nel far colpo su qualcuno. Una questione puramente soggettiva, una misurazione di autostima.

Vendita e seduzione, se prese insieme, hanno il baricentro su un elemento esterno e chiaramente oggettivo: un prodotto, un servizio, una storia. Se diciamo vendita, iniziano a passarci in testa immagini e gesti di commercianti o commerciali. Continuiamo a dividere il mondo tra chi vende e chi compra – corretto, ma parziale – e continuiamo a pensare che vendere sia un atto poco nobile, poco etico, poco corretto – sbagliato, ma parziale – dando da mangiare a stereotipi ormai grassi e appesantiti.

I mestieri che ci vengono in mente sono i soliti: agenti di commercio, negozianti, fiere e mercati, responsabili vendite in azienda e tutti i loro stretti parenti da immaginario collettivo.

Ma non sarà ora di aprire la mente? Renderci conto che questa Italia ha bisogno di vendere valori immateriali è il minimo: cultura, rispetto, contenuti, sensibilità, buon senso compreso quello civico, appartenenza, solidarietà. Renderci conto che è tempo di nobilitare la vendita portandola fuori dallo steccato del costo-consumo è più che necessario; è già tardi ma non tardissimo. Il pensiero dovrebbe subito andare alle scuole dove ogni giorno si misura la tenuta di un Paese attraverso la competenza (necessaria) e l’ardore (essenziale).

Chi insegna non dovrebbe andare ogni giorno in aula a vendere conoscenza ma lo strato più intimo della conoscenza, quel punto preciso in cui lo studente si toglie dalla difensiva e getta l’armatura del dovere. È sottopelle che siamo davvero noi stessi. Disdicevole pensare che si chieda agli insegnanti di formarsi su buone tecniche di vendita per conquistare gli studenti? Sì, certo, i ragazzi di oggi sono più complessi di una volta e più connessi con l’esterno, dipendenti dai social e dagli approcci virtuali, sfiduciati e non facili da coinvolgere. Bene, e allora? I tempi mutano per farci evolvere e non per fermarci a guardare la società in transizione. Vorrà dire che il mestiere dell’insegnante avrà bisogno di una scossa più netta da parte di tutti: politica, istituzioni, corpo docente, famiglie. La vera buona scuola dovrebbe essere quella capace di vendere l’incanto del sapere e non solo il sapere. La vera buona scuola dovrebbe essere quella in grado di non barattare mai l’autorevolezza e il senso delle regole con l’illusione del farsi amici gli studenti pur di farsi seguire per un’ora in aula.

Intervistata nel 2016 al Salone del Libro sul fatto che il 50% degli studenti italiani di scuola superiore prendesse lezione private, Paola Mastrocola andò come sempre dritta sul suo parlare. “È una cosa indegna ma non mi stupisce, l’avevo scritto anni fa nel mio libro Togliamo il disturbo. Trovo questo sistema semplicemente indegno perché significa che la scuola non fa quello che deve e le famiglie devono supplire spendendo soldi. Così, alla fine, solo i ricchi possono permettersi lezioni fuori, gli altri affondano. Certo, anche le famiglie hanno una forte responsabilità: non educano. I genitori fanno gli amici e ritengono di non dover insistere perché i figli si mettano a studiare. Scelgono la scorciatoia, preferiscono pagare, sempre che abbiano i soldi”. I soldi ancora una volta ritornano, e nella loro peggiore accezione che ci mostra impari.

Vendere senza che in mezzo ci passi denaro non sembra una vendita e non la riconosciamo come tale, piuttosto pare un regalo. Ma un regalo è unidirezionale e nella maggior parte dei casi attiva l’insopportabile senso di restituzione per chi non conosce la potenza del dono; la vendita pretende uno scambio e in quello scambio libera chiunque dalle costrizioni mentali. Siamo un’Italia affamata di scambio anche se continua a cercare regali. Non solo gli insegnanti ma anche i medici, gli imprenditori, i politici dovrebbero in prima linea rimboccarsi le maniche per formarsi un po’ meglio alla vendita dei valori ben più alti di ciò che loro rappresentano come persone. Ci siamo abituati a scarsi commercianti della nostra salute e della nostra istruzione così come siamo diventati impermeabili a scaltri commerciali della comune cosa pubblica. Un po’ responsabili lo siamo tutti.

Imparare a vendere ciò che sappiamo e non ciò che siamo è la sfida ambiziosa a cui tendere e se non ne sappiamo abbastanza di come migliorare, diamoci da fare per riuscirci. C’è in ballo una società intera.

Per una volta è il vendere che ha un prezzo, non il comprare. Che sia la volta buona.

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