Vuoi diffondere la cultura del dato nell’Analytics Economy? Rendilo emozione pura

Passaporto Digitale: una rubrica che mi fa sempre riflettere, quella che curo qui su SenzaFiltro. È un bel nome: insieme a Stefania, Osvaldo e al resto del team, siamo stati bravi a sceglierlo :-D. Un nome che può essere letto – e utilizzato – con profitto da più prospettive. In effetti, del Passaporto Digitale hanno […]

Passaporto Digitale: una rubrica che mi fa sempre riflettere, quella che curo qui su SenzaFiltro. È un bel nome: insieme a Stefania, Osvaldo e al resto del team, siamo stati bravi a sceglierlo :-D. Un nome che può essere letto – e utilizzato – con profitto da più prospettive.

In effetti, del Passaporto Digitale hanno bisogno tutti: i dipendenti, ma anche le aziende. Che poi sono sistemi organizzati di dipendenti. Se quindi le aziende devono trasformarsi digitalmente, anche i dipendenti hanno la medesima necessità. I miti del MIT che ho sfatato insieme ad Alessandro Giaume rendono bene l’idea di questa stretta relazione tra persone e organizzazioni: senza le prime, non esisterebbero le seconde.

Un tema molto caldo quando si parla di digitale è poi quello del dato. Data-driven, data-centricity, data-obsession sono solo tre delle tante etichette utilizzate da analisti, giornalisti e comunicatori per trattare l’argomento. Il dato digitale è pervasivo, viene generato in continuazione e, se ben governato, può fare la fortuna di un progetto di business, decretando la fine dei concorrenti. Non voglio essere ripetitivo e citare le “solite” Nokia e Kodak, per cui ti dirò Toys “R” Us, la fu più grande catena di negozi di giocattoli al mondo finita in malo modo poche settimane fa a causa dell’incapacità di leggere il contesto e di innovare da parte dei suoi manager. Se ti interessa il tema, ecco un’analisi di Riccardo Luna. A sua volta, il dato abilita customer experience rilevanti e permette alle intelligenze artificiali di essere sempre più intelligenti.

Il Passaporto Digitale si fa allora più complesso, nella sua dicotomia persona/organizzazione, e si frammenta in una miriade di tematiche come il data management, l’AI, la customer experience.

Più complesso = più affascinante!

Da grande (o meglio, per diventare grande), voglio fare Data Science

Qualche settimana fa, durante l’evento #Road2AI organizzato da SAS, ho avuto la fortuna di conoscere e incontrare Maria Cristina Conti. Maria Cristina lavora come Analytics and Data Science Team Manager nella Global Technology Practice della multinazionale. Ha una visione globale sui temi della Data Science e della Trasformazione Digitale. La cosa che mi ha acceso la lampadina è stata poi una citazione su un articolo da lei scritto nel 2017, che riporto nella citazione originale inglese:

When I decided to major in Statistics, my dad was worried that I wouldn’t be able to find a job except with the town demographics services.

Insomma, ho capito subito che con Maria Cristina avrei potuto parlare di Passaporto Digitale a 360 gradi, dalla doppia chiave di lettura persona/organizzazione. Passare all’intervista è stato immediato, e sono certo ti chiarirà un sacco di idee riguardo diverse tematiche di cui stai sentendo parlare sempre più spesso. Un altro timbro sul tuo Passaporto Digitale!

Dati, aziende e Analytics Economy: intervista a Maria Cristina Conti

Buongiorno Maria Cristina, e benvenuta nella Rubrica Passaporto Digitale di SenzaFiltro. Parto con una parola – Intelligenza Artificiale – che ho sentito tantissimo durante l’evento: in che modo l’AI sta cambiando il mondo del business e che cosa serve alle aziende oggi per avere il loro Passaporto Digitale?

Diversi analisti sostengono che oggi il Passaporto Digitale riguarda soprattutto la capacità di essere innovativi, la creazione di un mindset che fa della sperimentazione un valore aggiunto. Le aziende devono capire quali sono i dati rilevanti per il proprio agire, in che modo poterli utilizzare al meglio e come distribuirli trasversalmente rispetto a unit e uffici. Molte aziende, soprattutto italiane, lavorano ancora per silos a compartimenti stagni e fanno fatica a far parlare le persone. Il primo passo da fare verso l’ottenimento di un Passaporto Digitale consiste allora nell’abbattimento delle frontiere di capabilities ed expertise – tutto, naturalmente, nel pieno rispetto delle normative. Esiste poi il bisogno di avere persone capaci di pensare out of the box, indipendentemente dal livello gerarchico all’interno dell’organizzazione. L’approccio top-down è fondamentale per guidare, ma è importante anche ascoltare e lasciarsi ispirare dai più giovani, dalle persone appena entrate, cercando di collaborare e confrontarsi. Infine, strettamente connesso con quello che ho appena sostenuto, è importante non avere paura di creare aree di sperimentazione – seppur con obiettivi di business chiari. Bisogna mettere i Data Scientist di fronte a un problema di business reale e importante da risolvere; deve esserci un’area di investimento anche piccola capace di portare a un impatto concreto, a un cambio netto di prospettiva. In sostanza, la mia risposta a questa prima domanda può essere riassunta in tre parole: capabilities, application, valore di business.

Sui magazine e negli articoli dedicati al tema leggo spesso una frase che suona più o meno così: “nella rivoluzione dell’Intelligenza Artificiale, è l’uomo il vero valore”. Quando dovremo – se mai dovremo – avere paura dell’intelligenza artificiale in quanto dipendenti e clienti? Dove sta, al contrario, la cooperazione tra uomo e macchina e la possibilità di generare sinergie virtuose?

Come clienti, personalmente credo che non dovremo mai avere paura: diamo molte informazioni ma ne derivano benefici personali incredibili, il rapporto costi – benefici è a favore della seconda voce. Naturalmente questi dati richiesti e raccolti devono essere adeguatamente protetti dalle aziende. Come lavoratori dobbiamo invece metterci nella prospettiva che le macchine andranno sempre più a rimpiazzare gli aspetti ripetitivi delle mansioni. La persona rimarrà delegata a generare il “vero” valore, attraverso l’empatia e l’abilità di andare oltre scorgendo anche i problemi che oggi non ci sono. La collaborazione entra proprio in tale prospettiva: delegando alla macchina, possiamo focalizzarci sulle attività che hanno valore per davvero. Le idee le abbiamo e continueremo ad averle noi, la macchina le implementa. Volendo portare il discorso al tema delle professioni digitali, sembra quasi che esistano due figure in crescita sinergica: Data Scientist e Creativo. Di fatto c’è (e ci sarà) sempre meno distinzione tra queste.

I dati e la capacità di leggerli e interpretarli sono oggi asset centrali nel determinare il successo di un’azienda. Che cosa devono fare a tuo avviso le imprese per diffondere in modo pervasivo una cultura data-driven/data-centric al proprio interno?

Il top management deve crederci, i decisori aziendali devono essere i primi a crederci e a dare spazio alle aree di investimento e sperimentazione di cui parlavo sopra. Quando vedono il dato e lo comprendono, essi devono comprendere anche che con il dato possono arricchire la loro visione di insieme e “guardare oltre”. Il top management è fondamentale per dare il buon esempio, in modo che tutta la popolazione aziendale possa essere motivata e stimolata.

Da quelle del World Economic Forum alle analisi di società di consulenza e aziende leader, molte analisi citano però la capacità di leggere e interpretare il dato come competenza chiave anche dei professionisti digitali di oggi e domani: che cosa consigli invece alle persone che lavorano in azienda e che desiderano assimilare un mindset sensibile all’importanza del dato, per lavorare meglio?

Per prima cosa, è fondamentale infondere la fiducia nel dato. Il problema che incontro spesso è che chi ragiona di pancia (gut feeling) tende a non avere fiducia nel dato, perché se il dato conferma non serve a nulla e se non lo conferma è sbagliato. Bisogna portare evidenze alle persone e creare una cultura aziendale fondata sul valore del dato. Creare piccole aree di apprendimento per dare piccole evidenze di qualcosa che non ci si aspettava. Creare piccoli progetti e stimolare aree di sperimentazione. La grande differenza la fa proprio la possibilità di visualizzare il dato. Come spiegare un dato a una persona che ha altre necessità, ed è abituata ad altre tipologie di contenuto? Bisogna cercare di dare rilievo all’aspetto comunicativo del dato, fare del dato l’emozione, renderlo spiegabile. Snaturare il dato dal dato per renderlo comprensibile a tutti.

In un articolo citato migliaia di volte in tutto il mondo pubblicato su Harvard Business Review nel 2012, il “leggendario” Prof. Thomas Davenport ha sostenuto questa idea: il Data Scientist è il lavoro più sexy del ventunesimo secolo. Ti trovi d’accordo, o pensi possa esserci di meglio?

Sono di parte 😊 non so se è un lavoro sexy: certamente è un lavoro bello perché ti permette di vedere praticamente tutto. Si tratta di un lavoro che ha a che fare con i dati e sei al contempo uno speaker, una persona che deve portare evidenze di ciò che fa, un creatore e stimolatore di community. È un lavoro che ti apre le porte al mondo, anche in quei (rari) casi in cui non ti sposti da casa.

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