Dario Ianes: “La figura dell’insegnante di sostegno va superata”

Uno dei maggiori esperti dell’ambito fa il punto sulla situazione del sostegno scolastico e sui cambiamenti che andrebbero apportati per renderlo efficace.

Istruzione, inclusione, ma anche visione a prova di presente e magari di futuro. La scuola si nutre di tutte queste cose (o almeno dovrebbe), ma spesso, per timori o passività, sembra finire all’angolo un ingrediente indispensabile: la capacità di mettersi in discussione, soprattutto se parliamo del sostegno scolastico. Abbiamo così coinvolto la riflessione schietta non solo di un esperto dell’ambito, ma anche di un animatore culturale che utilizza la propria visione per far succedere le cose e magari cambiarle. Stiamo parlando di Dario Ianes, docente di Pedagogia e Didattica speciale alla Libera Università di Bolzano, oltre che fondatore delle Edizioni Centro Studi Erickson di Trento.

Professor Ianes, da attivo osservatore dell’ambito, secondo lei quali sono gli errori più frequenti nella scuola italiana relativamente all’ambito del sostegno?

Sicuramente l’errore costante è proprio quello di considerare l’insegnante di sostegno una risorsa speciale ed esclusiva per gli alunni con disabilità certificata. Questo binomio indissolubile crea una situazione di enorme fragilità. Da un lato la persona che prende l’incarico dipende da una diagnosi, e viene spesso vissuta come una sorta di proprietà privata dell’alunno. Dall’altro scattano frequenti meccanismi di delega da parte degli altri docenti nei confronti di questa figura. Una cultura radicata da ormai quarant’anni.

Parliamo di stereotipi. Spesso purtroppo l’insegnante di sostegno viene considerato come un docente di serie B e identificato con un ruolo assistenziale, quasi un colui o colei che traghetta via il “disturbo” dalla classe. Dove intercetta le maggiori responsabilità di questa deriva fortemente dannosa?

La deriva nasce proprio dalla norma 104/92, che ha portato alla creazione del cosiddetto organico di sostegno; era la cosa più “comoda” da fare, ossia dare un insegnante in più “attaccato” al bambino con disabilità, con le conseguenze che conosciamo. Sono convinto che la storia dell’integrazione sarebbe stata ben diversa se alla fine degli anni Settanta fosse stato attivato il cosiddetto servizio sociopsicopedagogico con la funzione di sostenere tutti i docenti nel percorso inclusivo. Creando invece una figura apposita ci troviamo alla situazione attuale: scarsa copertura delle ore e gli altri docenti “liberi” di delegare. Una precarietà che coinvolge anche gli educatori.

L’ambito del sostegno conosce aspri paradossi: da un lato tanti paletti per accedere alla scuola di specializzazione, dall’altro a bambini e a ragazzi disabili vengono poi assegnate figure spesso improvvisate. Come risolvere questa contraddizione?

Superando completamente la figura dell’insegnante di sostegno. Da insegnanti speciali dovrebbero essere trasformati in contitolari della classe, con un ruolo fondamentale: quello di arricchire l’offerta formativa. Coloro che invece hanno una formazione specifica, attualmente in minoranza, potrebbero dare un prezioso contributo metodologico, pratico e operativo ai colleghi curriculari. In questo modo i docenti potrebbero lavorare tutti quanti in maniera adeguata con il bambino che presenta disabilità e si valorizzerebbero persone preparate e competenti, che hanno investito sulla loro formazione. Ma soprattutto si concretizzerebbe un vero percorso d’integrazione. Pensiamo al caso di un bambino con disturbo dello spettro autistico: che senso ha che conosca il metodo della Comunicazione Aumentativa Alternativa un solo insegnante, quando il bambino deve avere diritto e possibilità di comunicare con tutti? L’attuale binomio va in contrasto con gli obiettivi di inclusione.

Diventa un’esclusività che esclude.

Non c’è dubbio. Gli stessi insegnanti di sostegno consapevoli ammettono di diventare delle barriere, degli strumenti di stigmatizzazione. Adottando invece la soluzione di cui parlavo si eviterebbe il meccanismo di delega e l’abuso di aulette dedicate al sostegno, chiamate spesso con nomi ipocriti. Va insomma scardinata l’idea di insegnante “speciale” per bambino “speciale”: binomio mortale.

Ci sono anche tanti insegnanti motivati che lavorano sul sostegno da anni, ma che magari non possono accedere alla scuola di specializzazione: la ritiene una discriminazione? E nel caso, come risolverla?

Sì, considerando che ci sono insegnanti senza specializzazione più bravi di quelli che ce l’hanno. Per risolvere la questione rovescerei l’intera dinamica, partendo da un incontro tra il fabbisogno rilevato e le competenze che possono rispondere adeguatamente a questo fabbisogno. Immagino quindi un bando che si basi non sul titolo, ma sulle reali competenze possedute, che andrebbero valutate da una commissione apposita. Una commissione di accreditamento delle competenze sempre aperta e in grado di intercettare profili a supporto dell’inclusione, da attivare sui territori che manifestano quel determinato bisogno.

La didattica a distanza con gli alunni e le alunne disabili raramente ha funzionato. In caso di futuri lockdown localizzati, lei che cosa proporrebbe per salvaguardare la continuità del servizio non solo didattico, ma anche educativo?

In aprile insieme alla Lumsa Università di Trento e alla Fondazione Agnelli abbiamo raccolto le risposte di 3.200 insegnanti di sostegno, ed è emerso che un 35% di alunni con disabilità è sparito completamente dalla didattica, il 50% ha manifestato peggioramenti negli apprendimenti, il 60% peggioramenti nei comportamenti problema. L’idea sarebbe di attivare delle microstrutture sociali tra alunni, in modo da creare una vicinanza emotiva e didattica mantenendo uno scambio costante. Nel caso di futuri lockdown avremmo quindi già pronta questa cordata strutturata a tre.

Nelle situazioni di disabilità grave come si potrebbe creare una cordata a distanza?

In tal caso sarebbe composta da insegnanti, famiglia e altri operatori, recuperando il piano educativo individualizzato.

Ci sono genitori che arrivano a essere più formati e preparati degli insegnanti di sostegno e del resto del gruppo docente, tanto da sostituirsi a essi. Dopo il lockdown in diversi hanno pensato di dirottarsi sull’istruzione parentale. Quali crede saranno i risvolti di tale dinamica?

Quando il genitore si deve sostituire all’insegnante perché quest’ultimo non riesce o non s’impegna a fare il suo lavoro è una sconfitta della scuola. Quello che mi preoccupa di più del sistema italiano è che mancano i dati e i monitoraggi su queste questioni.

Ci sono purtroppo casi di insegnanti di sostegno che hanno provocato regressioni o stasi nel percorso degli alunni disabili, senza poter agire per arginare i danni. Fatte queste premesse, lei proporrebbe strumenti che diano ai genitori la possibilità di valutare il servizio?

Sì. Quando si fa un PEI bisognerebbe fissare degli obiettivi ragionevoli e anche delle modalità di verifica, così da vedere i risultati raggiunti. Gli insegnanti devono dar prova del lavoro fatto! A breve ci sarà un piano educativo individualizzato nuovo, realizzato dal ministero dell’Istruzione, e potrebbe essere la base per attivare ciò di cui stiamo parlando.

La scuola che non include rischia di diventare l’anticamera di una mancata inclusione lavorativa e sociale degli adulti disabili di domani?

Certamente. A me preme sottolineare che fin dalla scuola primaria bisognerebbe iniziare a parlare di progetto di vita che orienti alla vita adulta, puntando a più autonomia possibile. Imparare a usare i mezzi pubblici, leggere l’orario, fare la spesa sono cose spendibili nel quotidiano e che si avvicinano ad aspetti organizzativi del lavoro. Se già nella scuola si ha uno sguardo che non vede gli alunni disabili come eterni bambini, allora è possibile costruire insieme a loro uno spazio di realizzazione di vita. Perché, come tutti, saranno gli adulti di domani.

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