David Bevilacqua: “Nel lavoro il ritmo conta più del tempo”

Il manager e senior advisor di Ammagamma, intervistato da SenzaFiltro, sottolinea la cesura tra aziende e collaboratori in ambito di work-life balance e la parcellizzazione a cui è sottoposta l’attenzione dei professionisti: il punto è lavorare insieme, lavorare meno, e difendersi dall’invasione del lavoro attraverso il digitale

21.06.2024
David Bevilacqua al Festival Nobìlita 2018

David Bevilacqua non nasconde la sua età. Il look è casuale e rilassato, a incorniciare occhiali grigi tondi e capelli bianchi; dietro di lui qualche poster dei Led Zeppelin, però, tradisce una vita molto intensa alle spalle – anzi, come ci dirà, anche troppo intensa. Ma gli occhi sono vispi e sorridenti, segno che ora la situazione è diversa.

Dopo essere stato ai vertici di Cisco, prima in Italia e poi in Europa, ha lasciato il suo posto apicale per fondare una start up di sicurezza informatica. Oggi è senior advisor di Ammagamma, azienda modenese che si occupa di intelligenza artificiale, di recente acquisita da Accenture. Ha scritto due saggi e partecipato come oratore a due TEDx. Ha una figlia da quando era molto giovane, e oggi vive con tre cani dai nomi rock: Axl, Page e Chester, che chiama “i miei ragazzi”.

 

 

Oggi sempre più persone soffrono per il loro rapporto col lavoro. Perché sta accadendo?

A me viene in mente soprattutto un fattore: il digitale. Avendo rotto le dimensioni di spazio e tempo del lavoro, la tecnologia ha ridotto molto la latenza, ovvero l’aspettativa rispetto al tempo tra una richiesta o un evento e la sua risposta o soluzione. Siamo sempre raggiungibili, e quindi sempre al lavoro. Il tempo “liberato” dalla tecnologia lo abbiamo restituito frammentato, parcellizzato. Non sai mai se sei al lavoro o no, se devi rispondere o no; e quindi se devi porre attenzione a te stesso e a quello che ti circonda, o a qualcosa che è altrove.

Si parla molto di tempo al lavoro, ma tu insisti spesso sul ritmo.

Sì, perché il ritmo è quello che ti dà l’idea del controllo di quello che stai facendo. Tutti questi stimoli esterni a cui siamo sottoposti interrompono il nostro ritmo e quindi la nostra concentrazione. Secondo degli studi ogni volta che la nostra concentrazione è interrotta ci vogliono ben 23 minuti per recuperarla, e noi siamo bombardati di continuo da stimoli e richieste di attenzione. È chiaro allora che non solo la produttività, ma anche la soddisfazione per il lavoro che si sta svolgendo, ne vengono danneggiate. Credo allora che sia urgente costruirsi degli spazi e dei tempi liberi da distrazioni. Personalmente, poi, ho abbandonato tutti i social media; anche LinkedIn.

C’è però come una reticenza, quasi una paura a prendersi degli spazi lontani dal lavoro; a sentirsi e dirsi “non occupati”.

È il cosiddetto “busy bragging”: il vantarsi di essere sempre di corsa, sempre impegnati. Lo si fa sia verso l’esterno che verso l’interno; sia con conoscenti e amici che con i colleghi e i capi. Abbiamo ancora inculcata l’idea che il valore di quello che facciamo è misurabile dalla quantità di tempo che ci richiede. Così ci affanniamo o a darci da fare o a far finta di darci da fare, e in questo la frammentazione di cui dicevamo è paradossalmente funzionale. Poi, magari, ci consoliamo dicendo che non è la quantità, ma la qualità di tempo che conta; ma non è vero, è un inganno. Non puoi avere davvero tempo di qualità se non ne hai anche in quantità.

Come si coniuga tutto questo con lo smart working o l’agile working?

Penso sia soprattutto una questione di spazi. La casa non può diventare del tutto ufficio: bambini, animali domestici, corrieri alla porta, notifiche sul cellulare, eccetera. Il livello di interferenze in casa è in media più alto che in ufficio, e quindi ci vuole molta più autodisciplina. Senza contare poi che non tutti dispongono di spazi adeguati. Le abitazioni degli italiani sono in media di 81 metri quadri: difficile pensare di lavorare bene in questi spazi. E poi non c’è niente da fare: siamo animali sociali. Un recente studio ha osservato che i gruppi che lavorano in compresenza fisica performano meglio.

Quindi tutti di nuovo in ufficio?

No, si tratta di affrontare il tema in maniera diversa. Non bisogna più parlare di spazi e tempi “ibridi”, che non sono né carne né pesce e finiscono per togliere ritmo e concentrazione. Bisogna riconoscere che c’è del valore aggiunto nel lavoro in presenza, se è ben organizzato e condiviso, ma anche che ci sono delle attività e dei compiti che possono essere gestiti con maggiore autonomia e libertà di scelta di tempi e spazi da parte dei collaboratori. Quello che è davvero da evitare, perché assurdo e dannoso, sono formule come “il martedì e giovedì stai a casa, ma il venerdì e il lunedì vieni in ufficio” – magari perché si ha paura che qualcuno osi farsi il fine settimana lungo.

Manca fiducia?

Quanto meno, credo che ci sia paura da parte di datori e manager di perdere il controllo – e quindi il potere del proprio ruolo. Il fatto è che il contesto è cambiato: una volta si faceva a gara per fare tardi in ufficio e sperare di farsi notare dal capo, ma oggi le persone vogliono soprattutto riappropriarsi del proprio tempo, e sono meno attratte da prospettive di carriera. Quando ero giovane il manager col vestito di sartoria e la macchina blu era invidiato e considerato un punto di arrivo per molti. Oggi non è più così, specie per le nuove generazioni. Forse anche perché hanno visto nei genitori, e in particolare nei padri, come il lavoro li abbia spesso allontanati dalla famiglia e da loro, e non vogliono fare la stessa fine.

Quando è stato il tuo personale punto di svolta?

È stato nel settembre 2014 all’aeroporto di Heathrow, Londra. Persi del tutto la testa per un trolley che non volevano farmi portare in cabina. È stato il momento in cui ho messo in discussione la mia vita, le mie priorità. E al centro di tutto c’era il tempo: mi resi conto che per non perdere 20 minuti all’arrivo stavo danneggiando la mia salute, oltre che il mio umore e, con ogni probabilità, le mie relazioni; che non stavo dando valore alle cose che davvero lo meritavano. Così mi sono licenziato, ed è cominciato un altro capitolo della mia vita.

Le aziende stanno sottovalutando queste dinamiche?

Moltissimo. Non si rendono conto che questa è una rivoluzione profonda quanto quella digitale. Anzi, forse anche di più, perché non ha a che fare con i mezzi e gli strumenti, ma con gli agenti, con le persone. Già ora trovare personale è difficile, ma lo sarà sempre di più. E lo sarà per tutti, anche solo per un semplice fatto demografico.

Ma l’automazione, l’intelligenza artificiale, creerà più lavori di quelli che sostituirà?

Il punto non è nemmeno tanto questo, a mio modo di vedere. Il fatto vero è che i lavori che creerà saranno alla portata di pochi. Mi sembra che troppo spesso ci dimentichiamo che ci sono tantissime persone che non lavorano con il digitale, che non possono fare smart working, che il “work-life balance” non sanno nemmeno bene cosa sia. Di queste persone noi abbiamo un disperato bisogno, e sono quelle che già ora sono spesso difficili da trovare. Io vivo sulla costa romagnola e osservo una drammatica carenza di personale per i servizi turistici. E non è solo una questione di salari, perché a volte non basta neanche alzarli molto per convincere le persone.

Che cosa possono fare, allora, persone e aziende?

Alla fine non c’è una formula: bisogna trovare una forma di armonia, di equilibrio sia nelle organizzazioni che per sé stessi; sia nel management che nei lavoratori in generale. Ci vuole disciplina, autostima e consapevolezza; saper interpretare i segnali per cogliere le occasioni, ma anche per saper dire di no. E smettere di pensare che siamo importanti quanto più siamo impegnati.

 

 

 

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In copertina, David Bevilacqua al Festival Nobìlita 2018. Foto di Domenico Grossi

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