Dio, quell’altro artigiano

Un elogio dell’approccio artigiano da Nobìlita: ogni lavoro ha la dignità per essere svolto bene e con passione. Dopotutto, anche Dio è un artigiano.

Io non ne avrei avuto il coraggio, ma io non sono Picasso. È George Steiner
(Vere presenze, Garzanti) a citare la
frase del grande artista spagnolo: “Dio in realtà non è che un altro artista.
Egli ha inventato la giraffa, l’elefante e il gatto. Non ha un vero stile: non
fa altro che provare cose diverse. Dio,
quell’altro artigiano
”. 

Il Dio artigiano di Picasso mi aiuta a dire la mia su una frase che in tanti utilizzano per rimarcare un approccio
condiviso e che invece a me non convince, anche se non l’ho mai svelato. Della
serie: chi sono io per confutare ciò che ha detto San Francesco? “Un uomo che lavora con le sue mani è un operaio; un
uomo che lavora con le sue mani e il suo cervello è un artigiano; ma un uomo
che lavora con le sue mani, il suo cervello e il suo cuore è un artista”. 

Già, questa frase sicuramente bella
non mi convince
. Resto tifoso di Mastro
Giuseppe
, l’uomo che aggiustava le cose di Novelle Artigiane (#lavorobenfatto 2018) quando dice che “nel
lavoro non ci sono cose facili e non ci sono cose difficili, dipende dal modo
in cui le fai, dalla capacità di tenere assieme la testa, le mani e il cuore”.

Connettere e dare valore a ciò che sappiamo (la testa), ciò che sappiamo fare (le mani) e ciò che amiamo (il cuore): mi sembra precisamente questo il punto.

Ciò che va quasi bene non va bene

Sì, yes, per me funziona accussì, e quando con sempre
maggiore fatica nascondo lo scrittore che porto in me per indossare la giacca
del sociologo funziona uguale, perché l’approccio
artigiano
è uno dei muri maestri che, come direbbe Wittgenstein, (Della Certezza, L’analisi filosofica del
senso comune
, Einaudi) è tenuto su dall’intera casa del #lavorobenfatto.

Tutta la mia vita – a partire da mio padre, che a dieci anni mi spiega la differenza tra il lavoro preso di faccia, quello fatto con rigore, passione, impegno, e il lavoro fatto ‘a meglio a meglio, quello che invece no – e tutta la mia attività di ricerca trovano senso in questa necessità, in questa urgenza di pensare il lavoro come dignità, come rispetto, come cultura materiale, come voglia di fare bene le cose perché è così che si fa. È una storia che naturalmente non ho inventato io: si può ritrovare nelle botteghe fiorentine del Rinascimento come in quelle degli stagnini, dei fabbri e degli ebanisti del Novecento che, in provincia di Salerno, solevano apporre sull’uscio la scritta “ciò che va quasi bene non va bene”; ma di esempi se ne potrebbero fare tanti altri.

Io ho semplicemente scelto di tornare a raccontarla, questa storia, e di farlo adesso che rischia di essere schiacciata dal potere della tecnologia – AI, 4.0, blockchain – e della velocità, che noi umani in fondo siamo fatti così, continuiamo a chiedere al cavallo di correre per portarci a Samarcanda, senza farci troppe domande su chi troveremo ad aspettarci.

L’elogio dell’approccio artigiano e il muro di
Lorenzo

Ecco, se non mi avesse aiutato Picasso, il mio titolo sarebbe stato Elogio
dell’approccio artigiano
, quello che ti fa sentire il bisogno di
mettere sempre qualcosa di te nelle cose che fai, quello che ti fa provare
soddisfazione nel fare bene una cosa “a prescindere”, qualunque essa sia:
pulire una strada, progettare un centro direzionale, cucinare la pasta e
fagioli, scrivere l’enciclopedia del DNA, preparare ‘na tazzulella ‘e cafè.
L’approccio artigiano che ti fa sentire interprete di una cultura, di una
vocazione; che ti porta a fare con gioia le cose che fai, “come se avessi il
fuoco nel cuore e il diavolo in corpo” come scrive James Hillman (Il codice dell’anima, Adelphi) citando
Josephine Baker. 

Sì, yes, non mi stancherò mai di ripeterlo: nel futuro che piace a
me lavoro vuol dire valore, dignità, rispetto di sé e degli altri. Qualcosa che ha valore “per sé”, non
solo “in sé”. 

Non ci sono alibi: vale sempre, anche nelle condizioni più disperate, come ricorda Primo Levi nel 1989 mentre racconta a Philip Roth di Lorenzo, il muratore che gli salva la vita nel campo di concentramento di Auschwitz. Nonostante odiasse i tedeschi, la loro cultura e la loro lingua, come era persino naturale in quel contesto, se i tedeschi chiedevano a Lorenzo di costruire un muro lui lo tirava su bello dritto e forte. Il perché non è intuitivo, però se uno ci pensa diventa evidente e persino poetico: per Lorenzo il muro ben fatto è l’espressione massima della sua umanità. Lui il muro lo tira su “per sé”, non per i tedeschi.

Fare è pensare

Lo so che non dovrebbe essere così, eppure faccio ogni volta fatica a
riconoscere che tiene ragione il
sociologo e torto la filosofa

Richard Sennett (L’uomo artigiano, Feltrinelli) nel suo racconto parte da New York, dall’inverno del 1962, dall’incontro con Hannah Arendt, la sua maestra, dal calore con cui lei sostiene che “le persone che fabbricano cose di solito non capiscono quello che fanno”, si accontentano di scoprire “come” farle, rinunciando a chiedersi “perché”. Il suo è un viaggio che attraversa i secoli e i luoghi, passa per le botteghe di Stradivari e Guarneri del Gesù, si chiede perché i segreti di maestri come loro sono andati perduti. Però quando arriva alla fine il lettore lo capisce, perché fare è pensare, perché è proprio l’intima connessione tra pensare e fare che può trasformare l’animal laborans in homo faber. Sì, aveva ragione Renato, il giovane maestro di chitarra che un giorno per amore è volato via, “è il calore che riesci a trasmettere quando fai qualcosa a fare la differenza”.

Si può fare, si fa

Non penso di cercare l’impossibile. Per certi versi è persino semplice: la
prossima volta che vado a Bottega, a Caselle, mastro Jepis e io ci facciamo un
video. Meno di un minuto, una bambina che chiede “Vincenzo, che cos’è il lavoro ben fatto?”, e io che rispondo “il
lavoro ben fatto è ognuno di noi che si alza la mattina e fa bene quello che
deve fare, qualunque cosa debba fare”, e poi ancora lei che chiede “e come si
fa il lavoro ben fatto?”, e io che rispondo “al lavoro ben fatto ci si abitua,
è come allacciarsi le scarpe o abbottonarsi la camicia, una volta che hai
imparato a farlo bene non te lo scordi più”.

È facile, it’s easy, e
può cambiare le nostre vite. Certo, poi ci stanno tante altre cose che bisogna
sistemare. Cose come il rispetto, i diritti, l’equilibrio tra i contributi e
gli incentivi. Cose che non servono, come il dirigismo e la competitività
povera. Cose come i risultati che non sempre corrispondono all’approccio, a
volte perché le risorse che hai a disposizione non bastano, altre perché siamo
individui a razionalità limitata e sbagliamo. Cose come il contesto, il bisogno
di spostare l’ago della bussola dal riconoscimento sociale della ricchezza al riconoscimento sociale del lavoro, dal
valore dei soldi al valore della
conoscenza
. Detto ciò, resta il fatto che il ribaltamento culturale passa
oggi più che mai per le persone, per
la loro capacità di sparigliare le carte, di essere creative, di risolvere
problemi. Le persone sono la leva fondamentale per cambiare l’approccio, la
cultura, il sentire comune del Paese. Questo è quello che penso io.

Si può fare, si fa. A patto di
non dimenticare la fatica che ci vuole per fare il pane, per tirare su un
ponte, per raccogliere i pomodori, per costruire un’automobile. A patto di
sapere che non potremmo lavorare, studiare, giocare, divertirci, vivere senza
le idee, le capacità, l’impegno, il lavoro di ciascuno di noi.

Nel futuro che piace a me le teste, le mani e i cuori delle persone sono determinanti, ed è l’approccio artigiano che fa la differenza. È per questo che sono stato felice di essere a Nobìlita. È per questo che sono felice di stare qui.

Photo credis: Lara Mariani

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