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Disabili che non fanno tenerezza
Sulla rappresentazione della disabilità il mondo delle serie tv americane è sicuramente più concreto di quello italiano, avendo rinunciato da tempo a immagini “pietiste” per provare a strutturare un racconto che risulti maggiormente inclusivo. Qualcuno ricorderà certamente il caso di due anni fa legato al casting per la produzione di una fiction Rai: veniva espressamente […]
Sulla rappresentazione della disabilità il mondo delle serie tv americane è sicuramente più concreto di quello italiano, avendo rinunciato da tempo a immagini “pietiste” per provare a strutturare un racconto che risulti maggiormente inclusivo.
Qualcuno ricorderà certamente il caso di due anni fa legato al casting per la produzione di una fiction Rai: veniva espressamente richiesto “un ragazzo di 15/18 anni nano o con altra disabilità che trasmetta tenerezza”. Ma chi ha detto che la rappresentazione della disabilità debba per forza essere mirata a suscitare tenerezza, ed essere centrata su una problematica accettazione che sfocia fin troppo facilmente nel compatimento?
I disabili eroi delle serie tv americane
Certo non la pensavano così i creatori del celebre Dottor House, disabile sicuramente, ma certo ben poco tenero nei confronti dei propri pazienti e collaboratori. Da questo punto di vista ormai da tempo le produzioni americane e inglesi offrono un’immagine della disabilità ben diversa da quella “classica” a cui siamo abituati: dal genio affetto da sindrome di Asperger Sheldon Cooper (uno dei protagonisti principali della sit-com per “veri nerd” Big Bang Theory) ai disturbi psichici di Elliot (l’hacker di Mr. Robot), sono decisamente molti gli esempi di persone con disabilità inserite nella narrazione non come “anello debole” del gruppo da curare e proteggere, ma piuttosto come leader e ispiratori del gruppo, veri protagonisti delle proprie storie.
Se usciamo dal contesto realistico e contemporaneo e ci rivolgiamo alle ambientazioni fantasy e fantascientifiche la forza espressa dai personaggi con disabilità incrementa ulteriormente. Basti pensare ai ruoli chiave di molti personaggi all’interno della pluripremiata Game of Thrones: da Bran, impossibilitato a camminare a seguito di una caduta ma dotato del “terzo occhio”, a Jaime Lannister che nel corso della storia subisce l’amputazione di una mano, fino al nano Tyrion Lannister, uno dei più astuti e pericolosi partecipanti al “Gioco dei Troni” (il cui interprete, Peter Dinklage, ha vinto proprio in questi giorni l’Emmy Award). Molti i personaggi disabili anche nei vari team di supereroi, vera e propria “moda” del momento: basti pensare a Daredevil (rimasto cieco in seguito a un incidente, ma non per questo meno determinato a combattere il crimine) o Legion, per cui la disabilità psichica non è un elemento “aggiuntivo” ma il vero e proprio elemento centrale della propria identità.
Tutti personaggi forti, determinati, positivi (e spesso anche negativi), che si possono amare o odiare, ma che certo non si limitano a ispirare “tenerezza” rimanendo sullo sfondo di storie in cui vengono ridotti a meri comprimari.
Disabili sullo schermo: un’immagine fedele?
Possiamo quindi dire che oggi abbiamo molti esempi dove la disabilità è ben rappresentata nelle serie televisive, con le proprie particolarità e difficoltà, favorendone la comprensione?
Non esattamente. Se conoscete almeno alcune delle serie citate avrete probabilmente già notato che cosa non vada: la maggior parte degli attori chiamati a interpretare personaggi disabili non soffrono realmente della disabilità che devono rappresentare sullo schermo.
Questo elemento è più importante di quanto non si possa pensare dato che da molte parti si è posta una riflessione: passando da una rappresentazione mirata a suscitare compassione a una centrata su forza, indipendenza e autonomia, sicuramente il messaggio diviene maggiormente positivo, ma rimane comunque falsato dal voler imporre un’immagine stereotipica e irrealistica. E questo non tanto perché nella vita di tutti i giorni sarà piuttosto difficile che un disabile debba vedersela con draghi e giganti, ma perché anche questi ruoli, benché principali, non si configurano come uno sguardo reale sulla disabilità, ma piuttosto come una sorta di lettura guidata per lo spettatore – e quindi etichettante a prescindere, anche se con gli anni l’etichetta sembra essere diventata più gradevole. Un po’ come se l’attuale tendenza del racconto della disabilità imponesse di sostituire uno stereotipo negativo con uno forzatamente positivo: è davvero possibile sostenere che la rappresentazione sia stata migliorata?
Che cosa chiedono le persone con disabilità
Da tempo le associazioni composte da persone con disabilità chiedono che la rappresentazione della disabilità stessa sia il più possibile realistica, e quindi non mirata né a suscitare “tenerezza” né a “compensare” le discriminazioni con rappresentazioni esageratamente positive, ma a rappresentare le persone disabili per quello che realmente sono: persone, e come tali dotate del proprio bagaglio di pregi e difetti tipicamente umani.
Anche in questo caso si possono citare alcuni esempi, come Micah Fowler (protagonista della serie Speechless), realmente affetto da paresi cerebrale, stessa patologia di cui soffre anche RJ Mitte (il cui ruolo più famoso è senz’altro quello del figlio di Walter White in Breaking Bad); ma forse il più noto di tutti è proprio Gaten Matarazzo (uno dei “piccoli nerd” protagonisti della serie Stranger Things) affetto da disostosi cleidocranica, una malattia genetica rara che gli autori hanno voluto inserire anche nella trama dello show, contribuendo a diffonderne la conoscenza e la consapevolezza nel grande pubblico.
Tornando alle considerazioni su disabilità e lavoro che hanno originato l’idea per questo articolo, i modelli di inserimento lavorativo odierni sono focalizzati sull’impiego e sullo sviluppo delle competenze delle persone disabili, e operano principalmente sull’inserimento effettivo nel lavoro, visto come un elemento fondamentale non solo per permettere al singolo di strutturare le proprie competenze, ma anche come un modo per aiutare l’azienda ad abbandonare i propri stereotipi e pregiudizi, di qualunque segno questi siano. Si tratta quindi anche in questo ambito di lavorare prima di tutto sulle percezioni e sulle fantasie dei colleghi per restituire alle persone con disabilità un’immagine finalmente realistica: non qualcuno da tenere in azienda perché si deve, ma una risorsa come le altre, perfettamente in grado di dare il proprio contributo.
Chissà se questo cambiamento, sicuramente utile, non possa essere aiutato anche da una visione adeguatamente diversa proveniente dal mondo delle serie tv.
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