Disabilità sul lavoro: chi li paga i pregiudizi?

I dati, ma soprattutto le storie, ci dicono che l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità non è tuttora una realtà radicata e consolidata. Quali sono le discriminanti sociali e culturali che ostacolano l’inclusione? Il difficile incontro di due differenti esigenze. Mondo del lavoro e mondo della disabilità faticano a trovare la quadratura del cerchio. Da […]

I dati, ma soprattutto le storie, ci dicono che l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità non è tuttora una realtà radicata e consolidata. Quali sono le discriminanti sociali e culturali che ostacolano l’inclusione? Il difficile incontro di due differenti esigenze.

Mondo del lavoro e mondo della disabilità faticano a trovare la quadratura del cerchio. Da una parte ci sono le remore degli imprenditori; dall’altra le tangibili criticità di accesso al mercato del lavoro delle persone con disabilità che, anche quando occupate, non è raro subiscano piccoli o grandi episodi discriminatori in grado di minare fiducia, autostima, esperienze professionali e rapporti sul luogo di lavoro.

 

Disabilità sul lavoro, qualche luce e molte ombre

L’ottava Relazione al Parlamento sul diritto al lavoro delle persone disabili, diffusa in primavera e relativa al biennio 2014-2015, fa intravedere le prime luci dopo gli anni bui della crisi. Ma, come spiega Marco Sessa, presidente dal 2009 dell’Associazione per l’Informazione e lo Studio dell’Acondroplasia (AISAC), la più comune forma di nanismo, il percorso è ancora molto lungo e non fa sconti: «Le ricadute socio-psicologiche – come il senso di colpa – per chi non riesce a trovare lavoro sono significative. Inoltre sono ancora molte le imprese che non adempiono ai loro obblighi di assunzione di persone con disabilità e preferiscono pagare multe perché ritengono che, nel complesso, convenga loro di più. L’imprenditore è alla ricerca di persone con una disabilità poco inefficiente, dove per efficienza si intende raggiungere massimi risultati con i minori costi possibili».

In Italia, aggiunge Sessa, che collabora con associazioni per la difesa dei diritti delle persone con disabilità come Lehda Milano, il match up tra il diritto a un’occupazione – principio riconosciuto dalla Costituzione italiana – e l’approccio dell’imprenditoria, guidato dalla logica del profitto, resterebbe sulla carta se non fosse per gli obblighi di legge. «La funzione del lavoro nel mondo della disabilità è fondamentale, per non dire essenziale e vitale. Lo è non solo per una questione meramente economica e di sopravvivenza. Ottenere riconoscimento in ambito lavorativo è importante in un’ottica di emancipazione, per sentirsi utili all’interno della società». Come si affronta allora la paura della disabilità nel mondo del lavoro?

 

Il paradosso di Gulliver e delle abilità

«L’etichetta di disabile non permette di valutare le potenzialità di una persona. Il timore di un’azienda, pubblica o privata, è quella di assumere persone che non siano in grado di produrre quanto dovuto, perché limitate nel proprio funzionamento».

Rocco Di Santo è un sociologo, responsabile dell’area Welfare dell’Ente di formazione professionale ENFOR di Policoro (MT). Il suo testo Sociologia sulla disabilità (pubblicato da FrancoAngeli) rende conto della complessità e della multidimensionalità del fenomeno.

«Il termine disabilità potrebbe rivestire un significatoneutro” che rimanda semplicemente alle peculiarità psicofisiche e/o sensoriali di una persona in relazione al suo contesto di vita, oppure vi è un significatonegativo” – un’etichetta, uno stigma – in cui si intende per disabile colui che non possiede abilità. Di fatto, il pregiudizio consiste nell’estendere specifiche limitazioni di particolari capacità a tutte le capacità possibili di un individuo.»

Infatti una persona potrebbe non essere dotata di alcune abilità, ma averne altre. «In tal caso vi è un vero e proprio paradosso, poiché ogni individuo possiede alcune capacità e non altre». Di Santo lo definisce il “paradosso di Gulliver”. «Il protagonista del romanzo di Swift non muta mai le sue caratteristiche, ma si trova sempre in un contesto in cui la maggioranza degli altri individui sono più grandi, più piccoli, più intelligenti, più stupidi e così via».

La straordinaria storia di Abdellatif Baka, prosegue Di Santo, è in questo senso emblematica. Il mezzofondista algerino si è imposto alle Paralimpiadi di Rio 2016 nella gara dei 1500 metri classe t13 (atleti con “bassa visione”) con un tempo migliore del vincitore sulla stessa distanza all’Olimpiade dei “normodotati”: Matthew Centrowitz, il cui tempo è stato più alto anche degli altri 3 atleti ipovedenti classificatisi dopo Abdellatif Baka. «Qui risiede il paradosso. L’etichetta di disabile non permette di valutare le vere potenzialità. Il difetto sta nel focalizzare l’attenzione su ciò che non si è in grado di poter fare rispetto, invece, a quanto si riesca a fare, spesso anche egregiamente». Intanto, eliminare le etichette anche a livello linguistico aiuta, sottolinea il sociologo.

«Al di là del fatto che esistono diverse tipologie di disabilità, che permettono differenti attività professionali, il pregiudizio è la disabilità in quanto tale», afferma Marco Sessa. «Serve un passaggio culturale che faccia percepire la persona con disabilità non con qualcosa in meno, ma con qualcosa di diverso. Una persona con fragilità esprime efficienza e porta il suo contributo al mondo del lavoro a modo proprio». Dunque ognuno di noi è diverso dagli altri, e ciò si riflette in un peculiare spettro di competenze. «Essere valutati realmente in base alle proprie capacità contribuirebbe a far cadere molti pregiudizi».

 

Scenari di innovazione sociale

Per i due terzi dei manager italiani gestire la disabilità sul lavoro produce ricadute positive e concrete, a partire da luoghi di lavoro più razionali a vantaggio di tutti. Questo è il sentiment rilevato da un’indagine promossa da Aism (Associazione Italiana Sclerosi Multipla), Prioritalia, Manageritalia e Osservatorio Socialis. Un cambiamento di prospettiva è quindi realistico o a oggi resta un’utopia? «Molte imprese si stanno responsabilizzando sul versante sociale – commenta Sessa – non a caso si parla sempre più di impresa sociale. Si registrano sensibilità differenti rispetto anche a cinque anni fa, e ogni segnale che accompagna questo sviluppo è positivo. Del resto, se pensiamo che non siamo ancora riusciti a risolvere il gap salariale e di opportunità professionali che separa uomini e donne, ci rendiamo conto di come il percorso resti duro e complesso per le persone con fragilità».

Per Rocco Di Santo occorre «sfatare la forzatura opposta, ossia che la persona disabile sia a priori un vantaggio per l’azienda. La persona con disabilità in un contesto lavorativo va intesa come un lavoratore che, a seconda delle sue capacità, è in grado di portare a termine mansioni e funzioni. Se il disabile venisse considerato come lavoratore e non come un “diverso lavoratore”, allora potremmo considerarci una società inclusiva».

Per facilitare il processo di inclusione, continua il sociologo, servono risorse umane, materiali e immateriali per adottare strumenti, strategie e atteggiamenti che facilitino le performance relative alle attività e alla partecipazione. ENFOR, ad esempio, organizza il Master di “Management per l’inserimento sociale e lavorativo di persone con autismo” volto a formare giovani laureati in discipline psicologiche, sociali e pedagogiche alla figura del job coach; figura che facilita l’inserimento sociale, ma anche l’accesso al lavoro di giovani adulti con autismo. «È necessario guardare al futuro», conclude Rocco Di Santo. «Innanzitutto partire dalla scuola ed educare i bambini all’accettazione delle diversità, e poi considerare ogni allievo in base al suo massimo livello di performance e capacità. Solo in questo modo ognuno potrà esprimere al meglio le proprie potenzialità e farsi conoscere per quello che è, non per quello che non potrà mai essere».

Per scardinare le criticità di accesso al mercato del lavoro, intervenire su diversi piani e in modo netto è fondamentale, conclude Marco Sessa. Guardare alla scuola come agenzia tesa a formare le nuove generazioni a una cultura più consapevole nei confronti del tema della disabilità è un passo obbligato. Ma c’è un altro aspetto da considerare, che va oltre la categoria sociale delle persone con fragilità. «Andrebbe cambiato l’approccio rispetto agli obiettivi di un’impresa. Allo stesso modo, allargando lo sguardo, la misurazione del successo e della crescita di un Paese non dovrebbe essere legata – come avviene ora – a parametri esclusivamente economici, ma anche e soprattutto sociali, comprendendo fattori come inclusione, felicità, qualità effettiva di vita delle singole persone. Solo all’interno di questo paradigma tante ricchezze che oggi passano inosservate potrebbero essere adeguatamente valorizzate».

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