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È più facile fare il FoodBlogger che andare a lavorare
Ma non sarà che questa storia dei lavori digitali è solo una scusa per riempire qualche articolo con contenuti più o meno ammiccanti e futuristici, ma in realtà senza alcun reale riscontro con quanto le aziende stiano cercando o siano in grado di comunicare? Negli ultimi giorni sono inciampato a causa di una bacheca Facebook mal selezionata […]
Ma non sarà che questa storia dei lavori digitali è solo una scusa per riempire qualche articolo con contenuti più o meno ammiccanti e futuristici, ma in realtà senza alcun reale riscontro con quanto le aziende stiano cercando o siano in grado di comunicare?
Negli ultimi giorni sono inciampato a causa di una bacheca Facebook mal selezionata (la mia), in un paio di classifiche redatte da esperti di settore. In particolare mi ha colpito quella di Michael Page, società di ricerca e selezione molto in voga alcuni anni fa per la specializzazione finance, che per evidenti scelte di mercato ha esteso il suo campo d’azione all’hi-tech. Il capo della divisione, Andrea Policardi, fulminato sulla via del Recruiting in ambito Digitale nel 2011 – ma fino ad allora devoto al marketing nel Gruppo Johnson – ha dichiarato l’esistenza di figure professionali e stipendi importanti che già dallo scorso anno sono emergenti in molte aziende e che cresceranno di anno in anno con percentuali incrementali.
A testimonianza dell’inattendibilità della ricerca, tanto gli stipendi immaginati per questi manager quanto il profilo professionale descritto. Un esempio comprensibile: secondo Policardi e la divisione HighTech, un e-commerce manager con 9-12 anni di esperienza guadagna da un minimo di 80.000 fino a un massimo di 100.000 euro.
Il fatto che 12 anni fa di e-commerce se ne hanno tracce in un unico episodio di Star-Trek, rende la ricerca di Michael Page attendibile al pari di quelle locandine che ogni tanto si intravedono all’esterno delle edicole, in cui si promettono 750.000 posti di lavoro nelle Ferrovie.
A noi in realtà risultano due fenomeni professionali realmente emergenti: da una parte un generico disinteresse da parte di aziende tradizionali (PMI in testa) ai temi del digitale o un tiepido approccio attraverso consulenti e società di comunicazione a tutto tondo. Dall’altra, l’emergere di figure non-professionali (nel senso tecnico del termine, ovvero senza un background scolastico – per fare gli ingegneri bisogna quantomeno aver studiato ingegneria – e senza una esperienza aziendale) che si propongono come consulenti, docenti, strateghi sui temi legati al digitale, di fatto creando o guidando una corrente di pensiero estremamente autoreferenziale che ha come unico lead la visibilità: “più appari più sei esperto”.
Il primo fenomeno fa la fortuna del secondo. La mancanza di cultura digitale da parte delle aziende rende necessario rivolgersi al passaparola spesso mediatico (chi ha più follower su twitter o più like su Facebook) oppure cercando all’interno di panel già sperimentati all’interno di convegni ed incontri di settore.
Ed è proprio qui che sono andato a fare una ricerca prendendo come riferimento due fra le maggiori iniziative legate al mondo digitale svoltesi negli ultimi sei mesi. Ho provato a individuare job description e background tecnico di coloro che oggi si propongono come divulgatori di punta di argomenti come l’e-commerce, il personal branding, la comunicazione aziendale, lo storytelling e il social business.
Ecco cosa ho trovato:
1 Food&Lifestyle Editor, 2 anni di azienda come assistente, poi nessuna esperienza aziendale
1 Fashion Blogger con 1 stage di 10 mesi e nessuna esperienza aziendale
2 Fashion Blogger una con titolo universitario, una con diploma e nessuna esperienza aziendale
7 Digital PR e blogger con nessuna esperienza aziendale di cui 4 insegnano alla Bocconi, 2 scrivono su testate CondèNast, 1 scrive su testata giornalistica e scrive libri
4 Digital Strategist – 1 insegna alla Bocconi, 3 scrivono libri. Di questi, 3 non hanno alcuna esperienza aziendale, 1 è stata commessa in un negozio per 6 mesi.
2 Social Media Manager – nessuna esperienza aziendale
2 Food blogger – nessuna esperienza aziendale
La prima impressione, guardando questa ricerca (immediata e decisamente spannometrica, si intende…) è che o non serve avere esperienza aziendale per fare consulenza aziendale oppure che questi mestieri li sta guidando chi, molto più prosaicamente, non trovando una soluzione lavorativa a tempo indeterminato ha deciso di inventarsi un lavoro infiltrandosi in una nicchia di mercato che ancora 3 anni fa permetteva grande visibilità e che negli ultimi 3 ha sviluppato anche delle prospettive interessanti se è vero che oggi il mondo del retail, del turismo, dell’alimentare e della moda si rivolgono sempre di più ai blogger e simili per rendere virale un prodotto o un messaggio.
Aziendalmente a mio avviso questo fenomeno ha le sue controindicazioni poiché, oltre ad una evidente carenza di competenze legate al target dei clienti (le imprese), è manifesta anche una carenza legata al tema specifico di cui si parla. Non a caso i blogger e gli influencer si sono tutti concentrati su cibo, vino, moda e turismo: sono temi in cui in Italia è particolarmente facile avere una cultura di base (nel caso chiedo a nonna) e discettare in maniera più o meno credibile è alla portata (quasi) di tutti.
Anche se poi bisogna saper scrivere, comunicare e creare delle strategie. E qui gli asini cascano, ma sui tetti delle aziende.
Eppure l’Italia ha degli asset industriali altrettanto strategici: la metalmeccanica, l’automotive, l’ingegneria. Un digital strategist in grado di creare una campagna di comunicazione su una nuova serie di schede madri o uno storytelling su come un organo di trasmissione diventa il perno su cui si sposta e si muove un trattore, farebbe davvero una fortuna immensa. E’ evidente però che quel genere di aziende non hanno lo stesso appeal di un vestitino di seta, di un profumo francese, di un super alcolico o di un hotel sulla Penisola Sorrentina.
Ma soprattutto, costringerebbe il malcapitato digitalcoso a studiare o a conoscere approfonditamente un prodotto senza poterlo scopiazzare da mille altri blog o comunicati stampa. Sarebbe necessaria una preparazione di base quantomeno scolastica o preferibilmente professionale e non potrebbe fingere di conoscere un ingranaggio come si finge di essere dei degustatori di vino. Presentare una macchina per il confezionamento non sarebbe “cool” come parlare di carrozzine, frullatori, scarpe da jogging.
E soprattutto, è molto difficile farsela spedire gratuitamente a casa.
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