Editoriale 104. Mangiare per credere

«Un libro per chi pensa che il beta-carotene si prenda in pillole». La frase era uscita sul Washington Post per recensire qualche anno fa il libro Un piacere selvaggio di Jo Robinson, da leggere e da tenere in cucina: uno snello manuale di guerriglia alimentare per aprire gli occhi senza farsi abbagliare dall’ardore integralista. Il […]

«Un libro per chi pensa che il beta-carotene si prenda in pillole».

La frase era uscita sul Washington Post per recensire qualche anno fa il libro Un piacere selvaggio di Jo Robinson, da leggere e da tenere in cucina: uno snello manuale di guerriglia alimentare per aprire gli occhi senza farsi abbagliare dall’ardore integralista.

Il paradosso è che, a livello di massa, l’industria del cibo ha soppiantato il cibo stesso anche se continuiamo a fingere di non accorgercene. Ci siamo fatti convincere che consumare fosse più importante del nutrire e che guardare il cibo fosse più gratificante del gustare; i social e i media hanno poi messo il carico sulle logiche deviate che il mercato aveva già imposto.

Sul cibo si scrivono fiumi di libri, si realizzano serie televisive, ci si fanno i talent show, ci si consumano milioni di selfie al giorno. Gli italiani parlano di cibo anche mentre sono in tavola a mangiare; ho un’amica austriaca, sposata con un italiano, che dopo quindici anni mi fa ancora la battuta.

Mangio dunque sono era un’altra storia: oggi Feuerbach avrebbe seri problemi a prendere una posizione tanto forte. Se ci dovessimo dare un’identità a partire dal cibo, ne usciremmo quasi tutti con le ossa rotte e sarebbe un po’ colpa anche del poco calcio rimasto nei prodotti.

Il punto è un altro: è tempo di spostare l’attenzione sui grandi volumi e sui grandi numeri. La storia del chilometro zero e della filiera corta non fa una piega nella misura in cui diventa stimolo per mettere all’angolo la grande industria e costringerla a ragionare non solo per scontistica e profitti ma per consapevolezza e pretesa dei consumatori. Se le parole parlano, dovremmo imparare ad essere più mangiatori che consumatori.

Dietro il cibo c’è molto di più di quanto riportato per legge in etichetta.

C’è il caporalato.

C’è il benessere o il malessere animale.

C’è lo spreco e c’è il rifiuto.

C’è l’ignoranza quasi collettiva dei giornalisti di settore.

C’è il disconoscimento di genere.

C’è la trappola mentale nel nome di bio.

C’è una catena del lavoro che scompare sottotraccia.

C’è la guerra delle associazioni di categoria e delle lobby.

C’è anche chi l’industria del cibo la nobilita ogni giorno e merita di essere detto.

Iniziare a informarsi, a chiedere e a capire sarebbe l’atteggiamento giusto: SenzaFiltro un’occasione ve la offre.

Mangiare meglio per credere meno alle menzogne sarebbe stato il titolo migliore per questo mensile ma indubbiamente troppo lungo. E nel giornalismo digitale, come per la UE che fa le pulci a lunghezze e diametri tra pesca e ortaggi, le dimensioni contano.

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