Editoriale 12. Pausa

La pausa, basta guardare alla musica, è un esatto momento di silenzio. Lo confermano gli spartiti sui quali troviamo segni ben marcati a indicarne valore e durata proprio perché chi sta suonando non si fermi a vuoto. Si annida forse qui l’errore: abituati a voler semplificare le cose, finiamo per confondere i piani facendo deduzioni […]

La pausa, basta guardare alla musica, è un esatto momento di silenzio. Lo confermano gli spartiti sui quali troviamo segni ben marcati a indicarne valore e durata proprio perché chi sta suonando non si fermi a vuoto. Si annida forse qui l’errore: abituati a voler semplificare le cose, finiamo per confondere i piani facendo deduzioni comode ma sbilanciate sul piano della realtà. Il contrario di “se faccio qualcosa allora mi muovo” non è “se sono fermo non sto facendo nulla”. Adriano Celentano fu il miglior interprete di questo gesto quando nel 1987, improvvisamente, impose il silenzio in tv: con un’intervista esclusiva, ci ha concesso in questo numero un inedito ricordo di famiglia.

Il fenomeno curioso che accomuna le pause dal lavoro è la spinta ad accelerare il ritmo prima che quelle pause abbiano inizio. La politica vive da sempre di “riforme entro l’estate”, le imprese tendono a spremere la struttura prima della sosta, fornitori e reti commerciali si imbrigliano entro la fine di luglio, i liberi professionisti gonfiano di appuntamenti le agende digitali che ormai ci illudono di contenere ogni nostra bulimia. Il pensiero comune è che, tanto, arriva poi l’estate ed è lì che poggeremo la responsabilità di un anno intero.

Nella recente classifica dei Paesi vacanzieri stilata su scala OCSE, l’Italia non conquista il podio: ci salgono invece Austria, Portogallo, Spagna e su questo numero di Senza Filtro abbiamo commentato la notizia stimolando i pareri di chi si misura ogni giorno con la politica italiana ed europea.

Esistono forme molteplici per allentare la presa, alcune imposte dagli altri, altre ritagliate per scelta. L’anno sabbatico è la prima associazione di idee che facciamo, anche se in Italia suona ancora mitologico: chi lo ha vissuto sulla propria pelle ci ha rivelato alcuni trucchi per ridimensionarlo nel quotidiano e restituirlo nella sua valenza. Oppure la maternità, altro momento classico con cui sospendiamo il lavoro: quanto incida sugli equilibri aziendali lo abbiamo chiesto ad un direttore del personale, uomo ovviamente, per capire se enfatizzare troppo questi meccanismi di tutela non rischi di svantaggiare le donne sulla parità di ruolo in azienda. Certe soste in un modo o nell’altro ci segnano perché ne usciamo diversi, più maturi; a modo loro sono le rughe del nostro lavoro.

Le pause non sono solo ferie, possono durare molto di più, possiamo subirle molto di più, talvolta vorremmo averle ma non dipende da noi. Le abbiamo raccontate attraverso la cassa integrazione, il ramadan, il fisco, la tecnologia.

E poi ci sono pause nascoste da finali e pause che vorrebbero ripartire. Su questo piano, editoria e impresa offrono esempi illuminanti anche se imperfetti, dalla ricomparsa del quotidiano l’Unità allo stallo dell’Italia produttiva. Leggerete due storie, non solo due articoli.

Sarei curiosa di sapere quanti di noi usano ancora il tasto pausa sui vari apparecchi di ogni giorno – ma il tasto esiste ancora? – perché la mia impressione è che ci stiamo abituando a sovrapporre, pur di non bloccarci.

Fermarsi non è un male. Fermarsi restando vigili è il vero segreto.

Nelle ultime settimane ha suscitato prese di posizione molto nette la scelta del giovane professore di un liceo italiano che, ispirandosi a John Keating e all’Attimo fuggente, ha invitato i suoi studenti ad approfittare dell’estate per cogliere un’essenza più profonda dalla vita. Letta la notizia, anche una parte di me è idealmente subito saltata sui banchi, euforica, ma poi mi sono guardata intorno e ho visto solo gente che scattava foto con lo smartphone per postare quella scena sui social. Questo per dire che le rivoluzioni si nutrono dei tempi giusti se vogliono arrivare sui libri o sugli schermi, siano quelli del cinema o di un social network. Era il 1989 quando uscì quel film ed erano in America. L’Italia di oggi ha un’altra fibra e siamo distanti da una certa purezza di quegli anni. Piuttosto dovremmo lanciare una provocazione diversa, culturalmente più profonda perché sociale. I compiti ci arrivano sempre dall’alto, da chi ci insegna o da chi ci paga, eppure sappiamo tutti che la base risolve i problemi molto meglio del vertice e che il più dei limiti non arriva dal basso. Servirebbe che per una volta i compiti estivi li facessero gli altri, quelli in alto seduti sulle poltrone che girano, e che quei compiti li assegnassero i lavoratori. Mi pare di vederli presidenti e direttori, chiusi in casa o sotto l’ombrellone, mentre elaborano risposte complesse per domande banali. E pensare che bastava stare più attenti durante l’anno, ascoltare i dipendenti, seguire la lezione, frequentare meglio l’azienda.

Buona estate, buone pause. Senza Filtro torna il 16 settembre.

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