Editoriale 31. Ogni maledetta domenica

Giocare una partita a porte chiuse è come recitare a teatro senza un pubblico, il rito si compie lo stesso ma l’aria non vibra. Vale per il calcio in Europa così come per il baseball in America: proprio a Baltimora, nel Maryland, la stagione 2015 è già iscritta negli annali per la prima partita del […]

Giocare una partita a porte chiuse è come recitare a teatro senza un pubblico, il rito si compie lo stesso ma l’aria non vibra. Vale per il calcio in Europa così come per il baseball in America: proprio a Baltimora, nel Maryland, la stagione 2015 è già iscritta negli annali per la prima partita del massimo campionato interdetta ai tifosi. La città era andata in tilt dopo l’uccisione del ragazzo afro-americano Freddy Gray e così optarono per gli spalti chiusi, non riuscendo a reinserire quell’incontro nel calendario incessante del baseball americano. I Baltimore Orioles vinsero per 8 a 2 sui Chicago White Sox tanto amati da Obama ma nemmeno un applauso si alzò dai 42.000 posti dello stadio. In silenzio, ma vinsero lo stesso.

Il pubblico non costruisce il risultato ma lo interpreta e lo ributta in campo. È l’immediatezza dello scambio, reale o da un monitor, che trasforma lo sport in qualcosa che per invidia non riusciamo a chiamare lavoro. Eppure lo è, a tutti gli effetti: un’attività regolamentata per legge che produce un servizio a cui corrisponde una retribuzione. Suona distante, è così, ma non fa una piega; tutt’al più si nota qualche sgualcitura. Intanto chiariamo questo: in Italia quando si parla di sport si parla di calcio e nessuno se la prenda a male o si senta svilito perché diversamente sarebbe come spiegare il cibo italiano parlando dei contorni. Il piatto forte è indiscutibilmente lui: ogni domenica è sempre e soltanto il calcio che siede a capotavola.

Fa un gran comodo pensare che chi calcia un pallone non lavori, la sola idea ci umilia. Noi che da questa parte del campo o dello schermo abbiamo la certezza di guardare solo un gioco per il quale abbiamo pure faticato a guadagnarci due ore libere o un biglietto. Il cervello ringrazia ogni volta che gli suggeriamo una angolazione diversa delle cose. D’altro canto è impossibile negare che quasi tutti i lavori al mondo ragionino diversamente: i mestieri comuni non odorano di tifoseria ma di sudore.

Quando lavoriamo manchiamo di fantasia e pecchiamo di eccessiva creatività. La prima è una facoltà interiore con cui riproduciamo immagini in rappresentazioni complesse, la seconda ha più inventiva. La fantasia è reale, la creatività opportunista. Quando il lavoro c’è, è a quello che bisogna guardare per capire come vanno le cose e non come andrebbero se fosse diverso. I calciatori hanno novanta metri di campo per novanta minuti di gioco e non possono permettersi di pensare a come potrebbe andare la partita se le misure non fossero quelle.

Costantemente dimentichiamo che lavorando giochiamo sempre in casa anche se non ne siamo mai abbastanza convinti. Non vale solo per chi muove tra le mani la sua impresa, vale per tutti fino ai liberi professionisti e ai dipendenti. Lavoriamo sempre col pubblico a favore se lo facciamo con voglia e dignità, anche quando le tifoserie ci arrivano chiaramente divise: chiamatele famiglia, passioni, stipendio, ruolo sociale, pressione economica, sogni. Il fattore campo non è un’invenzione televisiva ma quella sensazione netta di avere ai piedi le scarpe più comode con cui fare più strada. Nessun grande campione sceglierebbe quella vita se non avesse la certezza di un pubblico per lui, tutto per lui, pronto a sostenerlo con lacrime e boati. Non essere calciatori di successo ci costringe a immaginarcelo da soli il nostro pubblico: nessuno ci grida dagli spalti che stiamo facendo la cosa giusta quando timbriamo un cartellino o incontriamo un cliente.

Troppa letteratura d’azienda e troppa formazione succhia dallo sport una linfa ruffiana che dura il tempo di una seduta in aula perché quando poi rientriamo in ufficio il pallone si sgonfia e non riusciamo nemmeno più a sentire il fischio di inizio tanto sono distanti quei due mondi. Il problema è che quel tipo di  formazione non dice tutta la verità nient’altro che la verità, ruba soltanto e mistifica. Non ci dice quanto sia cinico lo sport perché solo in pochi ce la fanno mentre gli altri spariscono, non ci dice tutte le porte che sbatte in faccia quando l’età non genera più punteggi e quindi business, non ci responsabilizza sul bisogno di motivarci da soli. Non possiamo pretendere che ci sia sempre qualcuno accanto a noi oppure sopra a servirci le parole giuste per fregare l’avversario, qualunque sia. La vera crescita si allena intimamente da soli. I formatori drogati di sport girano per le aule come cleptomani incuranti del valore di ciò che rubano ma al tempo stesso incapaci di non arraffare la citazione di successo pur di fare colpo. È solo autogol.

Lo sport ci ricorda quanti anni abbiamo, sia che lo giochiamo sia che lo guardiamo. Capita anche col lavoro: da giovane lo fai, quando invecchi ti siedi sul divano e ne senti parlare.
Non si dice mai abbastanza che lo sport aiuta a crescere perché è anche un gesto fisico che ti fa toccare un compagno di squadra o un avversario, che ti costringe a trattare il risultato come una persona, che ti toglie le mutande negli spogliatoi e ti fa sentire come tutti. Gli uffici, ovunque, ci hanno reso la vita blindata e intoccabile, la privacy ci sovrasta di righe gialle sfrontate e le relazioni si sfiorano appena.

È tempo che le aziende riassaporino coi collaboratori il gusto dello stadio, i piedi che sbattono e i cori che seccano le gole. Per troppo tempo ci hanno abituati ad accontentarci mentalmente delle partite di calcetto invernali, nei campetti gelidi di periferia, nessuno spogliatoio riscaldato e zero tifo, con troppi guardalinee e pochi fantasisti a fare la rosa dei migliori. Abbiamo provato a divertirci lo stesso ma non è stato facile; sarà tutto diverso però quando inizieremo, noi per primi, a voler rendere migliore ogni maledetta domenica che precede il lunedì.

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