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Editoriale 82. (De)formazione professionale
Io ci credo ancora alla storia del primo passo e che le trasformazioni partano da un gesto controcorrente rispetto al solito. Ci scordiamo però di un elemento: da dove muove il passo. Alla fine di agosto ci è arrivata notizia in redazione dell’imminente partenza della prima Scuola di Economia interuniversitaria: un’idea che vede riuniti il […]
Io ci credo ancora alla storia del primo passo e che le trasformazioni partano da un gesto controcorrente rispetto al solito.
Ci scordiamo però di un elemento: da dove muove il passo.
Alla fine di agosto ci è arrivata notizia in redazione dell’imminente partenza della prima Scuola di Economia interuniversitaria: un’idea che vede riuniti il Sacro Convento di Assisi in collaborazione con la Luiss Guido Carli, l’Istituto Teologico di Assisi, l’Alma Mater di Bologna, il Politecnico di Milano e l’Università Federico II di Napoli. Il comunicato stampa era abbastanza chiaro: studenti e neolaureati li avrebbe ispirati San Francesco, grazie anche a camminate nella natura sia al mattino che al tramonto. Da lì, una serie di slogan che abbiamo sentito ripetere talmente tante volte negli ultimi anni che mai come in questo caso “al lupo, al lupo” e San Francesco sono stati tanto vicini.
Nuovo Umanesimo digitale.
Individuo al centro.
Rispondere alle sfide del presente.
Nuove traiettorie di futuro.
Sto fortemente dalla parte della natura, dell’economia circolare, della meditazione, della formazione che abbia un capo e una coda attaccata alla realtà del lavoro, della sostenibilità negli stili di vita e di consumo parole comprese. Non sto dalla parte del marketing pigliatutto e delle nicchie che non portano da nessuna parte. L’Italia è diventata un sistema pigro il cui metabolismo rallentato ha bisogno di riattivarsi da capo a piedi, organicamente, senza eccessi improvvisi e senza strappi: o ripartiamo in modo uniforme o rischiamo di fare altri danni.
Avremmo avuto piacere di conoscere il progetto da dentro ma nessuno ci ha mai risposto dalla segreteria organizzativa di Percorsi Assisi – nemmeno per declinare – quando a nome di Senza Filtro abbiamo chiesto se fosse possibile partecipare a una delle giornate in vista del numero di settembre dedicato alla formazione. Avevamo specificato di non essere interessati a intervistare i soliti manager umbri illuminati dai santi e che l’intento era cogliere l’essenza del percorso formativo descritto con un’impronta tanto forte. Peccato.
Il trend formativo dei prossimi anni, ad ogni buon conto, è segnato. Dopo anni di team building aziendali tra i fornelli per sfamare la noia degli uffici e di coaching nelle sale congressi degli alberghi con lo sportivo di turno riciclato alla didattica, ora ci aspettano alberi da abbracciare col direttore, il corpo a corpo gentile tra colleghi, la meditazione del mattino in pillole sulla chat gestita dalla società di formazione, l’esperienza individuale a tutti i costi. Va tutto bene finché si parla di equilibrio personale ma il mondo del lavoro è un’altra cosa, la formazione è un’altra cosa, la ricaduta per le imprese di ciò in cui si investe tempo e denaro è un’altra cosa.
Da dove muove il passo resta la costante a cui guardare. La formazione, già solo a nominarla, evoca genesi e sviluppo e chiede di sapere molto di più sull’identità di partenza per garantire un buon risultato all’arrivo. La formazione pretende coerenza.
Aziende in cui la piramide gerarchica è ancora l’unica forma ammessa non si rendono credibili davanti alla potenza della mindfulness proposta ai collaboratori, tra l’altro senza che mai un amministratore delegato o un presidente partecipino come tutti (e sarebbero i primi ad averne più bisogno).
Università in cui la chiusura rigida nella bolla è ancora l’unica forma ammessa non si rendono credibili davanti alla smania di offrire agli studenti modelli rivoluzionari nei programmi.
Scuole in cui la lavagna magnetica è ancora l’unica forma ammessa per sbandierare la propria evoluzione digitale non sono credibili davanti all’urgenza di mettere in contatto i ragazzi di oggi con modelli credibili fatti di territorio, progetti vicini, relazioni.
Nella formazione, e nelle scuole e nel lavoro, non si tratta più di stare dentro o fuori ma di stare insieme e di guardare dalla stessa parte proprio in virtù dei punti di osservazione spesso opposti.
In giro, da anni, è tutto un gran parlare di mestieri di domani e di competenze del futuro ma resta il fatto che i giovani di oggi non vanno farciti, vanno nutriti bene. Bene vuol dire orientati anche verso una cultura del lavoro che recuperi l’impellenza di un orgoglio italiano dentro un mondo più grande e che rivaluti – rinnovandola – la taglia medio-piccola della nostra industria; bene vuol dire educati all’inclusione, alle corrispondenze, alle distanze, allo scambio.
I comportamenti saranno la leva, quanto le competenze.
Il modo con cui insegniamo adesso nella scuola e nelle università sarà il linguaggio e la relazione che ci verrà restituita da chi tra vent’anni ci organizzerà economia, società, politica, futuro, legami.
La formazione porta con sé falsi sinonimi e la parola competenza è in cima alla classifica: diffidare da chi le mette vicine di banco perché il rischio è che si copino a vicenda senza valore reciproco.
Formazione è un movimento considerato erroneamente in linea retta come se l’idea di progressione fosse per forza un intervallo da coprire da un punto all’altro; eppure abbiamo visto dove ci ha condotti la formazione verticale portata all’estremo con professori talmente specializzati da conoscere solo la teoria di ciò che insegnano e solo per accaparrarsi una cattedra ma coi piedini d’acciaio poggiati solo in Ateneo.
Lo scorso giugno ho partecipato ad una giornata di formazione accreditata dall’Ordine dei Giornalisti, appuntamento all’Accademia dei Georgofili di Firenze: alto il livello dei relatori, attuale il tema sul legame tra cibo e informazione, buoni i ritmi. Prima che la mattinata si chiudesse, ho provato a cercare su Linkedin il profilo di ognuno dei relatori: di tutti loro, l’unico a non averne era il professore universitario a cui era stato assegnato il tema della centralità della comunicazione. Fate una prova: statisticamente, chi lavora nel mondo universitario non conversa sui canali social professionali, oppone ancora mediazioni nel contatto, esita ad uscire allo scoperto, di fondo crede di non averne bisogno. Su Linkedin troverete i profili istituzionali delle Università ma difficilmente i professori in quanto persone e sono le persone che comunicano con le proprie vite e idee.
“C’è qualcuno che ha una domanda, in chiusura?”
“Io, volentieri, se posso rivolgermi a tutti i relatori”.
E ho spiegato.
Il professore ha dato le sue motivazioni, fragili anche a detta del brusio della platea.
Dal pubblico, dietro di me, è intervenuto un ragazzo giovane presentandosi come un “tecnico” dentro le accademie.
“Lei si sbaglia”, mi ha detto. “Non è vero che non usiamo i social, abbiamo una sorta di Linkedin interno alle università”.
Una bolla dentro altra bolla. Il pericolo è dietro l’angolo: affidare la formazione e la ricerca a chi continua a creare nicchie, a parlare sotto le campane e a tappare le fessure naturali che il tempo crea. Con l’aggravante di illudersi aperti, digitali, persino ispirati a santità.
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