È tempo di cambiare paure. Quella del volare, come gesto in sé, quasi non è più al passo coi tempi: troppo personale, troppo intimo. L’urgenza è incutere una prudenza nuova più che arginare una paura vecchia: ogni volta che saliamo su un aereo stiamo sporcando il mondo. Non imbrattiamo solo i muri e le strade ma […]
Editoriale 17. I nuovi rischi del mestiere
La percezione del rischio è un fatto personale e molto relativo. Certamente nel lavoro, più che nella vita privata, abbiamo margini di azione più ristretti o almeno lo sembrano, le relazioni professionali non sono mai così pure da renderci liberi fino in fondo e le protezioni dall’alto fanno spesso acqua. Decidere e rischiare li viviamo […]
La percezione del rischio è un fatto personale e molto relativo. Certamente nel lavoro, più che nella vita privata, abbiamo margini di azione più ristretti o almeno lo sembrano, le relazioni professionali non sono mai così pure da renderci liberi fino in fondo e le protezioni dall’alto fanno spesso acqua. Decidere e rischiare li viviamo come sinonimi.
Subiamo spesso, però, impressioni sbagliate: in questo, la cronaca ci offre un bel passaggio. Sono scattate da poche ore le manette per titolari e gestori di 18 circhi italiani, alcuni molto noti, che fingevano di assumere ballerini e attrezzisti per alimentare invece un giro di immigrazione clandestina pari a oltre 7 milioni di euro. Insomma, mentre il pubblico si illude di assistere al pericolo in diretta, il rischio viaggia altrove. La metafora lascia pensare. Forse anche noi, quando siamo al bivio di una scelta nel lavoro – sia che tocchi una gestione quotidiana, sia che miri a un cambiamento – guardiamo a volte dalla parte sbagliata o ci illudiamo di calcolare bene il rischio solo perché crediamo di poterlo misurare. Onestamente, la mia fiducia va più a chi si preoccupa di gestirlo piuttosto che evitarlo perchè tanto il rischio esiste e voltarci dall’altra parte è la più stupida omertà verso noi stessi.
C’è chi sceglie professioni con alti margini di azzardo, c’è chi immagina il lavoro come un bunker di massima sicurezza. Se è vero che lavorare ci restituisce chi siamo, il nostro investimento aldilà delle zone sicure ci trasforma e come. I mestieri di questo millennio stanno evidenziando alcune certezze. Lavorare non serve più solo a guadagnarsi da vivere ma è diventato una sfida personale, anche in quelle professioni che credevamo eterne. La tecnologia guardona ad ogni ora ci costringe ad una facciata sempre in ordine. Gli hyperlink che ci bombardano il cervello paiono cecchini nascosti dietro al nulla. Abbiamo alzato le asticelle dello stress senza sapere quale fosse il nostro record. Confondiamo il rischio col pericolo perché è più comodo puntare il dito fuori. I titoli professionali sono ormai talmente incomprensibili che dietro ai biglietti da visita potrebbe esserci chiunque.
Con questo numero di Senza Filtro abbiamo capito che rischiare fa aumentare i fatturati delle aziende e che le più lungimiranti stanno dando la caccia agli esperti. Al tempo stesso, però, la cronaca internazionale ha messo in luce che i grandi manager si ammalano di stress e ci muoiono pure e che i direttori del personale non sono al sicuro neppure in Air France o in Suzuki. Qual è allora la posta in palio, la carriera o la salute? Overconfidence, assuefazione e incoerenza etica sono i veri rischi che stiamo correndo tutti. A me pare che l’accelerazione dei modelli stia facendo lo sgambetto alla conoscenza delle persone e delle cose.
Ieri se ne è andato Luciano Gallino, il piemontese di 88 anni che ha segnato la sociologia e il mercato del lavoro italiani. Lavorava da sessant’anni e si era formato lavorando, senza mai rinunciare allo studio: da operaio a docente universitario senza laurea, con l’idea tenace che l’impresa avesse un ruolo sociale e che dovesse restituire ai suoi dipendenti ciò che loro facevano per lei. Sempre con la testa sui libri e con gli occhi sulle aziende, sulla gente al lavoro, sulle relazioni sociali. Già da ragazzo pare si portasse appresso sempre i libri, anche in pausa pranzo. Chi lo ricorda in queste ore parla di una persona tutta d’un pezzo, rigorosa all’estremo, uno studioso “contro” per principio. È questo, allora, il rischio che vale la pena correre, quello di chi non cede alla banalità di superficie che precede la politica, di chi si muove nel mondo del lavoro formandosi fino alla vecchiaia, di chi si ostina a scrivere saggi contro l’arroganza della finanza mondiale che stravolge la vita di tutti e di chi, alla fine, ha capito dove vale la pena guardare. Gad Lerner titola così il suo ricordo: “il grande sociologo che, pur restando moderato, ormai passava per intransigente”.
La conoscenza può essere un rischio, oggi. Lavorare rispondendo ad un’etica, prima ancora che ad un capo, può mettere a repentaglio molte garanzie. Dobbiamo solo capire chi vogliamo essere quando lavoriamo e quali nuovi rischi del mestiere siamo disposti a correre.
Niente, sul piano delle scelte, è tanto soggettivo quanto il rischio. E niente, sul piano dei rischi, può essere tanto soggettivo quanto un trapezista che crediamo di vedere solo perché siamo seduti sotto il tendone di un circo.
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