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Editoriale 55. Torre di controllo
Di mattina siamo tutti uguali. Quanto ci somigliamo, appena svegli, quando la ragione prende in mano i comandi. Abbiamo bisogno di gesti e di riti, appena svegli, di azioni messe in fila come formiche a cui non serve dire nulla, tanto sanno bene da sole cosa fare. Dopo che ogni notte ci riporta alla totale […]
Di mattina siamo tutti uguali. Quanto ci somigliamo, appena svegli, quando la ragione prende in mano i comandi. Abbiamo bisogno di gesti e di riti, appena svegli, di azioni messe in fila come formiche a cui non serve dire nulla, tanto sanno bene da sole cosa fare. Dopo che ogni notte ci riporta alla totale assenza di controllo, la luce richiama all’ordine qualsiasi velleità di sregolatezza. I più obbediscono, alcuni lottano, pochi trovano l’equilibrio notte-giorno, che poi è la misura tra follia e ragione; se l’equazione è questa, ne siamo costantemente avvolti. Solo col rito delle azioni mattutine – una dietro l’altra e bene o male nello stesso ordine – ci ricodifichiamo per riallinearci ad una “normalità” rassicurante. Follia e ragione ci stanno sottopelle e azioni sempre uguali a se stesse sono uno xanax senza ricetta. Ma che c’entra col lavoro? Proprio niente, finché continueremo ad assecondare gli scomparti senza mescolare i contesti e senza aprire i pensieri.
La notte è la follia di quando osiamo nel nostro lavoro – restando, andando, sfidando, mutando stile – e, al contrario, il giorno è la ragione con cui giustifichiamo il gesto – resto in questo posto perché ho una famiglia da mantenere, me ne vado perché tanto non ho una famiglia da mantenere, direttore le propongo questo progetto come sfida personale per la nostra azienda, da oggi comunicheremo coi nostri clienti senza altri intermediari. Sono solo esempi.
Il controllo si fa mania quando lo rivolgiamo su noi stessi pur di castrare chi siamo, è un ruolo quando ci pagano per farlo, un abuso se invadiamo qualsiasi recinto non nostro, una rassicurazione quando ci illudono che garantisca sicurezza. Un tallone d’Achille però c’è sempre, così come un dettaglio che sembrava insignificante e sfugge dal piano d’azione o come una fessura invisibile che resta aperta nonostante sia stata blindata ogni porta e finestra. Se non si tratta di un controllo che ha per unico scopo sicurezza, i canali scoperti sono il boccaglio attraverso cui il dentro respira col fuori, e liberamente si esprime.
La regola non è controllo ma strumento. Prendiamo l’orario di lavoro di un mestiere da ufficio, a prescindere dal tipo di lavoro dipendente: dato che non sanno come valutare efficacemente i propri collaboratori sulla base dei risultati e delle capacità di relazione e di altre strategiche variabili, il tempo diventa lo strumento di controllo più immediato. Controllare è una delle più alte forme di deresponsabilizzazione personale: scarico su di te la mia incapacità di mettermi in relazione per capire insieme come portare beneficio a entrambi e – ancor peggio – se non rispetti le mie regole ti punisco. Quando si lavora, ormai adulti, cade il senso di ogni pretesa educativa e la spinta sul controllo non ha mai una valenza di spessore.
È di notte che la paura prende il sopravvento, con la differenza che a spaventare i bambini è il buio esterno, per gli adulti quello interno: meno siamo capaci di perdere il controllo e più ci sentiamo persi. Di notte non abbiamo quei santi impegni giornalieri che ci coprono gli istinti, di colpo non conta più nulla il titolo scritto sul biglietto da visita, ci manca la protezione delle agende piene sempre pronte a riempirci i vuoti. Ancora metaforicamente, la maggior parte di noi lavora come se fosse sempre giorno perché la follia della notte porta con sé il terrore di conoscere quanto sia fondo il proprio pozzo; pochi, ma esistono, cercano la notte per andare a vedere proprio quanto sia fondo il proprio pozzo.
Joseph Pulitzer non era solo il nome dell’ungherese a cui è ispirato il premio giornalistico più prestigioso al mondo e che, arrivato negli Stati Uniti nel 1864, risollevò il New York World trasformandolo in un quotidiano di denuncia e di inchiesta, primo al mondo ad uscire con inserti a colori. Pulitzer era maniacale, asfissiante, rigoroso, sempre in fase di controllo, che quando si tratta di garantire informazioni vere e corrette diventa senza dubbio un vanto. “È mio dovere assicurarmi che i lettori abbiano la verità. Ma non solo: devo presentargliela brevemente, affinché la leggano; chiaramente, affinché la capiscano; efficacemente affinché l’apprezzino; suggestivamente, affinché se la ricordino; e, soprattutto, accuratamente, affinché possano essere guidati dalla sua luce”. Le dure battaglie editoriali condotte contro il rivale William Randolph Hearst lo portarono a soccombere psicologicamente, arrivò un crollo nervoso, la vista iniziò a cedere e la retina si staccò per sempre. Pulitzer poté continuare a sopravvivere usando l’unica carta che conosceva e che sapeva perfettamente giocare: organizzazione e controllo ma, soprattutto, mettere le persone giuste intorno a sé, valorizzandole. A loro chiese per anni di fare da tramite tra lui e quel mondo che non poteva più vedere, né leggere, né interpretare. Per lui fecero di tutto, non fu facile ma lo fecero con serietà e dedizione e lo conferma il libro tradotto da poco in Italia Joseph Pulitzer. L’uomo che ha cambiato il giornalismo (Add Editore, 2017).
Guardiamoci un po’ più dentro e guardiamoci un po’ più intorno: non fuori, attenzione, intorno. Se abbiamo ancora bisogno di mettere il controllo su un gradino dei valori più alto della relazione, vuol dire che qualche conto non torna e, implacabilmente, tornerà sempre meno.
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