Editoriale 19. State buoni (se potete)

Ci sono dei terzi che non si capisce mai terzi a chi. Nel mondo del lavoro l’esempio lampante arriva dal Terzo Settore che segue un primo e un secondo che nessuno nomina mai: lo Stato e il mercato. C’è chi lo chiama “il sociale”, chi “volontariato”, chi “economia della solidarietà”. Come quando non sappiamo che […]

Ci sono dei terzi che non si capisce mai terzi a chi.

Nel mondo del lavoro l’esempio lampante arriva dal Terzo Settore che segue un primo e un secondo che nessuno nomina mai: lo Stato e il mercato. C’è chi lo chiama “il sociale”, chi “volontariato”, chi “economia della solidarietà”. Come quando non sappiamo che parole usare per descrivere qualcuno che non è bello ma che ci sa fare e, siccome non vogliamo sminuirlo, allora puntiamo su qualcos’altro.
Al Terzo settore il nostro Paese non riesce proprio a fare l’orlo e spera di cavarsela ogni volta con imbastiture a filo lento, consapevole di non avergli preso bene le misure. Il testo della riforma, approvato ad aprile 2014 dalla Camera, dopo tre mesi è passato di rito alla Commissione Affari Costituzionali del Senato e lì è rimasto. Ogni tanto qualcuno se ne ricorda, altri lo citano per opportunismo ma sta di fatto che chi lavora dentro quel caos non regolamentato e senza una minima contrattazione collettiva continua a mettere buone toppe sui gomiti bucati di uno Stato inefficiente.

L’economia sfrenata degli ultimi decenni ci ha mandato purtroppo un messaggio chiaro: quasi tutto è in vendita, tutto pare monetizzabile. Le aberrazioni sono infinite, a volte impensabili. Nel 2001 sul New York Times uscì la notizia di un’azienda cinese che offriva servizi di scuse a pagamento: se avevate litigato con qualcuno, anche in campo professionale, e non ve la sentivate di esporvi e fare il passo, bastava contattare la Tianjin Apology che avrebbe mandato per vostro conto un professionista laureato, formale nel vestire e con lunga esperienza di relazione nel sociale. Se c’è un merito indiscusso che va alle migliaia di operatori del sociale è che invece non si tirano mai indietro, sempre gli occhi pronti e le mani aperte.

La parola soldi suona sempre stonata quando ci si impegna per aiutare gli altri, ci spaventa il confine tra etica e business e alla fine preferiamo fare confusione. Un conto è il lavoro, un conto è il volontariato. Se diciamo terzo settore non diciamo (solo) volontariato. Un volontario motivato non è migliore di un professionista eticamente ispirato. Il pagamento o la richiesta di un compenso per il proprio lavoro non è un demarcatore di merito, capire questo è la base di tutto.

Abbiamo sentito il bisogno di dedicare l’ultimo numero 2015 di Senza Filtro a un modello di impresa e di lavoro ancora ambiguo e poco conosciuto nelle sue vere fattezze. C’è infatti un’economia sommersa, nel Terzo settore, che non è solo finanziaria: spesso è la voglia di strutturarsi come il profit ma con la paura di macchiarsi il nome, è il mercato del senso di colpa che viene insinuato negli altri e che fattura, è la scusa della gratuità che ormai non certifica nemmeno più il valore. Il concetto di volontarietà, ci hanno ben spiegato in questo numero, è una conquista ormai diffusa e la parola volontario non suscita più l’effetto positivo di una volta. In ogni caso molti dei milioni di operatori che sostengono da soli questa economia del sociale hanno il diritto di sperare in un po’ d’ordine e in qualche garanzia. Verrebbe da dire speranza di carriera se usassimo un linguaggio aziendale.

Alcune leggi di mercato hanno intanto raggiunto il sociale ma non per questo rischiano di corromperlo: il non profit ha scoperto la concorrenza perché sport e cultura attraggono più dell’assistenza, sta annusando la pubblicità e tenta di andare oltre il “marketing della sfiga”, ha capito che senza una organizzazione manageriale avrà vita corta. Gli operatori professionisti che miglioreranno il sistema sono quelli che pretenderanno di essere trattati come lavoratori ad ogni costo e non come volontari che si accontentano. Nessuna onlus o associazione rischia di perdere un’etica se si avvicina al marketing che non serve solo a vendere ma a creare relazioni, cioè la linfa in questo caso. Lo ha capito bene il fundraising, mestiere che ci siamo fatti spiegare dalla a alla z.

Imprese sociali e finanza, banche etiche, avvocati di strada: abbiamo raccontato anche le loro storie. E poi le esperienze da onlus piccole e sconociute o grandi e sdoganate, come Save The Children, convinta che in questo mondo possa entrare il business senza fare alcun male al bene e attiva affinché si arrivi finalmente a studi di settore alla pari di altri campi. Siamo persino riusciti ad intervistare di persona il Capitano Ultimo – proprio lui, sotto scorta e senza un volto – per raccontare il progetto di volontariato che guida da tempo e con cui sostiene se stesso e molti altri.

All’opposto siamo andati a mettere il naso dove i soldi girano davvero e ci siamo accorti che l’etica ha subaffittato casa al business: fondazioni bancarie, servizio sanitario nazionale, polizze assicurative. A farne le spese sono sempre gli altri, quelli svantaggiati, i più poveri. L’Istat ha da pochi giorni comunicato il numero dei senza dimora in Italia, basandosi sui dati di accesso a servizi di mensa o accoglienza – almeno una volta – nei Comuni in cui è stata condotta l’indagine. Quando ho letto il numero, sono onesta, non sono riuscita a dire a me stessa se fossero tanti o pochi.  Senza un parametro non sappiamo misurare. Per chi ogni giorno vive a contatto con quelle realtà e prova a ridare loro una speranza, il discorso cambia: gli operatori e i volontari del Terzo Settore sanno capirlo e come quel dato perché è un moltiplicatore di ciò che loro stessi già ben conoscono.

I senza dimora sono 50.700, ognuno di noi provi da solo a tradurlo.

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