Editoriale 28. In-Sostenibilità

Essere daltonici è un marchio di fabbrica, solitamente ci si nasce. L’ incapacità di percepire correttamente i colori finisce per confondere il senso del reale, lo sapeva bene John Dalton che nel 1794 teorizzò a livello scientifico il suo problema con un celebre articolo che gli valse la firma eterna su questa forma di cecità. […]

Essere daltonici è un marchio di fabbrica, solitamente ci si nasce. L’ incapacità di percepire correttamente i colori finisce per confondere il senso del reale, lo sapeva bene John Dalton che nel 1794 teorizzò a livello scientifico il suo problema con un celebre articolo che gli valse la firma eterna su questa forma di cecità. Il chimico inglese era però un daltonico speciale, il suo problema era la deuteranopia, una totale insensibilità al verde.
Anche il mondo animale ha un campo visivo che cambia totalmente a seconda delle specie: un campo spesso alterato dal punto di vista cromatico, quasi sempre sbilanciato rispetto a quello umano, ma alla fine forse più funzionale del nostro. Tra tutti gli animali, il più straordinario sembrerebbe il serpente che riesce a muoversi solo perché vede il calore emanato dagli oggetti e dalle persone che incontra lungo il percorso.
Due semplici esempi, uno umano e l’altro animale, a dimostrazione che per vedere bene non servono solo gli occhi e che spesso sono gli stessi occhi a non bastare.

Quando in Italia si parla di ambiente, non si sa mai da che parte guardarlo e il verde è diventato ormai abusato. Utilizziamo in ordine sparso parole come cultura ecologista, green economy, sostenibilità. Tolto chi le usa a proposito perché ci lavora o perché li studia, questi concetti vengono piazzati nei discorsi senza cura. Dubito che in altri contesti saremmo altrettanto generici e confusi, noi italiani che ci vantiamo di cibo, moda, arte e design; noi che su questi temi, spesso a ragione e altrettanto spesso con presunzione, non concediamo deroghe a nessuno. Anche l’ambiente dovrebbe appartenerci come la Gioconda o il Parmigiano e invece lo immaginiamo sempre fuori da noi, così come la responsabilità di averlo a cuore. I rifiuti sono i nostri ma li buttiamo il più lontano possibile. Abbiamo il terrore della puzza, degli scarti e del fine vita degli oggetti e non abbiamo ancora capito che la natura ha bisogno di noi quanto noi di lei.
Per accontentare produzioni sfrenate che rispondono a consumi inutili, abbiamo messo la natura a libro paga. L’abbiamo fatta lavorare troppo e male, ore di straordinario non previste e non pagate. L’abbiamo industrializzata e non l’abbiamo capita.

Le imprese che hanno saputo leggere i tempi e tradurre la sostenibilità sono quelle che hanno prima abbassato lo sguardo per studiare e poi l’hanno rialzato per innovare, non a caso sono quelle che dal 2008 ad oggi possono permettersi un sorriso.
I dati di GreenItaly – Rapporto di Fondazione Symbola e UnionCamere – dicono che “un’impresa su quattro dall’inizio della crisi ha scommesso su innovazione, ricerca, design, qualità e bellezza. Sono 372.000 le aziende italiane (ossia il 24,5% del totale) dell’industria e dei servizi che dal 2008 hanno investito nel 2015 in tecnologie green per ridurre l’impatto ambientale, per risparmiare energia e per contenere le emissioni di CO2”.

Impossibile negare che una fetta italiana di impresa si sia mossa, il freno a mano lo tira solo la politica. Da Bruxelles ci appare tutta la fragilità di chi ci rappresenta, immobili nel prendere in mano il tricolore di chi investe e crede in un’economia più leggera e più rispettosa per l’ambiente senza nulla togliere alla competitività, tutt’altro. Assente la nostra politica industriale e ambigua la nostra politica europea che, mentre ci sotterra di burocrazia per accedere ai finanziamenti UE, ci bacchetta perché non accediamo a quei fondi. Certo fa il suo anche la politica locale: basta guardare ai nostri Enti, lenti nell’accaparrarsi finanziamenti europei forse perché svogliati a indirizzarli. Il grande problema dell’Italia è anche questo: una strisciante paura delle regole, una incapacità nel render conto. I fondi europei viaggiano su binari europei e rispondono a criteri esatti di indirizzo: come farebbe la nostra politica locale a barattare consensi?

Su un terreno scivoloso come questo, Senza Filtro ha messo un prefisso alle parole per trovare un’altra angolazione: questo numero si ispira alla In-Sostenibilità, alla fatica nel reggere i pesi di una consapevolezza così grande perché tocca tutti noi che lavoriamo, produciamo e consumiamo. Ci siamo chiesti se l’Italia sia capace di sostenibilità aldilà di ciò che promette negli slogan istituzionali o nella pubblicità delle sue imprese. Dire In-Sostenibilità ci è sembrato più reale perché la sveglia è già suonata.

In Australia, dopo aver effettuato uno scrupoloso monitoraggio aereo sui 2.300 chilometri di barriera corallina, gli studiosi hanno riferito di un “panorama straziante”: il 93% è già morta, soggetta a sbiancamento. Dicono che la colpa sia di El Nino ma secondo me ognuno di noi potrebbe metterci il suo nome e le sue emissioni, o il suo biglietto di viaggio insostenibile o il suo modo di lavorare e fare impresa.
Anche i daltonici, ne sono convinta, riescono a vedere che quella barriera non brilla già più.

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