Editoriale 112. Nobìlita 2022

Quando chiudemmo la prima edizione di Nobìlita ricordo il viaggio verso casa in ogni suo dettaglio, ma per lo più ricordo al millimetro le sensazioni che avevo addosso: riuscivo a percepire ancora a pelle l’entusiasmo del pubblico, la bellezza acqua e sapone della prima volta, l’eco di certe frasi o il magnetismo di certi ospiti […]

Quando chiudemmo la prima edizione di Nobìlita ricordo il viaggio verso casa in ogni suo dettaglio, ma per lo più ricordo al millimetro le sensazioni che avevo addosso: riuscivo a percepire ancora a pelle l’entusiasmo del pubblico, la bellezza acqua e sapone della prima volta, l’eco di certe frasi o il magnetismo di certi ospiti sul palco ancor prima che parlassero. Di quel viaggio di ritorno resta impagabile una cosa su tutte: non avevamo parametri, non c’era mai stato un prima, non potevamo confrontare nulla. Non avere riferimenti è un lusso che dura poco, magari distorce la realtà però resta un atto libero.

Chiusa la quinta edizione, lo scorso 24 maggio all’Autodromo di Imola, l’effetto è stato del tutto diverso, perché la memoria ha fatto il suo corso e si è estesa in un baleno come fosse olio. Ha ripercorso ogni edizione, misurato, cercato il meglio e il peggio. Il danno dell’economia emotiva è che portare a termine qualcosa di proprio lo fa sembrare, solo per questo, già di valore. Il fatto è che Nobìlita non va visto tra il meglio e il peggio del suo storico ma tra quello che la cultura del lavoro italiana è e potrebbe essere: il festival non inventa niente di nuovo se non portare sul grande palco, come fosse il grande schermo del cinema, quanto già succede dentro e fuori le aziende, dentro e fuori l’economia, dentro e fuori la società. 

E proprio perché la nostra memoria individuale rischia l’errore vale la pena tirarne in ballo una collettiva capace di mediare e dare la strada, rendendo preziosa quella già fatta. Gli animali, se sono elefanti, lo sanno benissimo.

Gli elefanti li ha citati anche Mario Tozzi, così come la loro memoria di gruppo; persino la loro celebrazione della morte e del lutto facendo veglie, come unica specie al mondo oltre a noi umani. Mentre lo ascoltavo mi è tornato in mente un libro caposaldo sugli animali, l’autore è Carl Safina, il titolo Al di là delle parole. Mi ha ricordato il passaggio in cui racconta che una volta un ricercatore riprodusse la voce registrata di un’elefantessa morta, trasmettendola da un altoparlante nascosto nel fitto della vegetazione: gli elefanti della sua famiglia, come impazziti, per giorni la chiamarono facendo versi insoliti e disperati, e la figlia di quell’elefantessa continuò a chiamarla per mesi e mesi. Nessuno osò più fare quell’esperimento tra gli elefanti. Il senso del gruppo è l’architrave della vita di comunità elefantina e quando muore il più anziano, quello che guida, nei giorni successivi alla sua scomparsa pare quasi che gli altri sbandino disorientati, senza sapere più quale sia la direzione.

Ma Mario Tozzi ha lasciato il palco dando una risposta sensata e centrata alla domanda che da sempre ci poniamo nel pensare alle differenze tra noi e gli animali e, tanto o poco che sia, la nostra matrice pericolosa sta tutta nell’essere l’unica specie vivente che accumula per possedere e non per sopravvivere.

Forse, adesso, state pensando di colpo se vale anche per voi, se siete accumulatori e quanto, se vi risuona davvero più il verbo avere che essere. A me questa verità ha deluso parecchio e l’immagine dell’uomo-lavoratore che accumula me la sono portata dietro dall’apertura del festival, col monologo di Mario Tozzi, fino all’ultimo panel, che parlava di Grandi Dimissioni e grandi sentimenti.

L’avevamo deciso mesi prima, durante la riunione del Comitato Contaminato di Nobìlita, nel mettere a fuoco il programma; l’avevamo premesso alla serata teatrale di apertura del festival la sera prima del 24 maggio: avremmo portato sul palco i sentimenti.

Ogni panel – al di là del titolo e al di là dei relatori – lo ha fatto a modo suo: gioco facile parlando di guerra e presunti nemici; più arduo andando a indagare i costi invisibili del digitale, ma ogni costo è una forma di responsabilità, e non c’è senso di responsabilità che non gratti il fondo di una qualche emozione o consapevolezza; l’elogio italiano dell’incompetenza, con la sua provocazione di fondo, ha tirato in ballo per forza i sentimenti. Credo che siamo riusciti a farlo senza retorica da capo a coda.

E quando l’applauso di chiusura del festival arriva come ogni anno ad azzerare di colpo la stanchezza e la tensione, ecco che la mente già corre al “come sarà stata questa edizione rispetto alle altre?”. Non più da questa edizione madre dei sentimenti e delle memorie collettive, del bisogno disperato di comunità anche nel mondo del lavoro e dell’urgenza di ascoltare tanto noi stessi e le nostre impellenze quanto gli altri.

Diversamente siamo persi e lo saremo ancora.

Pensate agli elefanti anche quando andate al lavoro e quando siete al lavoro in mezzo agli altri. Loro sono gli unici al mondo a essere capaci di comunicare su grandissime distanze, fino a decine di chilometri. Hanno sotto le piante dei piedi i cosiddetti corpuscoli del Pacini con cui possono intercettare e decodificare i suoni, i brontolii e le vibrazioni degli altri elefanti, che passano sotto terra. 

Inimmaginabile per noi che siamo presi da tutt’altro anche nel bel mezzo del lavoro: imporci sugli altri, non metterci in ascolto con cura; accumulare.

Ci vediamo a Roma la prossima primavera per la nuova edizione di Nobìlita, ma non venite con gli elefanti, non chiediamo tanto.

Mario Tozzi, che di pianeta e specie viventi potrebbe parlare giorni, per mezz’ora ha parlato sul palco di Nobìlita col suo JobX: Lavorare per il pianeta. Un monologo che potete riascoltare qui.

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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In copertina: Mario Tozzi. Credits @Domenico Grossi

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