Editoriale 32. Scusa se me lo merito

La prossima volta che ci scappa la meritocrazia di bocca, fermiamoci qualche secondo perché potrebbe non essere ciò che credevamo. Niente spinge tanto in alto la pigrizia quanto la scusa più nobile, quella che fa toccare il cielo con un dito: il discusso merito degli altri. Tanto in Italia vanno avanti i raccomandati, tanto meno […]

La prossima volta che ci scappa la meritocrazia di bocca, fermiamoci qualche secondo perché potrebbe non essere ciò che credevamo. Niente spinge tanto in alto la pigrizia quanto la scusa più nobile, quella che fa toccare il cielo con un dito: il discusso merito degli altri.
Tanto in Italia vanno avanti i raccomandati, tanto meno vali più fai carriera, tanto se conosci le persone giuste arrivi dove vuoi. E intanto pochi si preoccupano di costruirsi il proprio di merito, quel bagaglio necessario per fare in modo che siano poi gli altri ad attribuirglielo con onore. Vale per la reputazione, per la leadership, per la lealtà, per l’etica, per ogni valore personale che diventa il pilastro di un carattere.

C’è un grande errore che precede qualsiasi presa di posizione meritocratica, è la presunzione di giustizia quando invece ogni parola che contiene un potere è già la prima forma che nega democrazia. Quoziente intellettivo e attitudine al lavoro non accreditano per diventare migliori degli altri agli occhi della società. Di per sé nulla di sbagliato se avessimo le idee chiare su cosa voglia dire meritarsi qualcosa, su come lo si possa valutare e su quanto sia corretto premiare o discriminare per tutto questo.
È la cultura di base intorno al merito che negli anni è cresciuta zoppa, per di più poggiando sulla stampella sbagliata: piuttosto che chiederci che Paese volevamo essere e mettere le basi per diventarlo – dal sistema di istruzione a quello di impresa –  è stato più semplice dire ai bravi che erano antipatici e ai furbi che non se lo meritavano: giusto per non prendere posto da nessuna parte e rimettersi a guardare. In un’Italia con la verità in pugno, c’è mancato poco che i migliori quasi dicessero “scusa se me lo merito”.
Ci siamo forse distratti quando il sincero “te lo sei meritato” è diventato il rancoroso “te lo sei meritato”? Eppure hanno la stessa grafia, la stessa punteggiatura assente, nessun elemento grammaticale che li renda diversi.

No, non ci siamo distratti, è che vale il contesto così come per i linguisti vale la pronuncia. Se per decenni abbiamo respirato la moda della confusione e del dito contro, ora tocca rimescolare le carte ma senza barare di nuovo. Le occasioni sono infinite se sappiamo di cosa riempire una nuova idea di meritocrazia: oggi la società grida che da soli si perde più che in passato.
Il mio merito ha bisogno del tuo per garantire un salto avanti collettivo, è nel sistema che bisogna riportare il valore e non solo nel singolo. Abituati a selezioni del personale in cui aziende spesso mal gestite cercano profili di altissimo spessore per poi annullarli non sapendo come dar loro valore, è tempo di sfidare la sorte e invitare i candidati a profilarsi loro stessi le aziende meritevoli e a ridisegnare una matrice del lavoro più equa.

Il merito che abbiamo in testa non è quello che pronunciamo risentiti quando Le Iene di turno prendono alla sprovvista i politici e li fanno cadere su ciò che non sanno: in quei momenti gli inviati in smoking non fanno bene al Paese perché confondono le idee sul senso profondo delle cose, ci abituano a catalogare il merito come mera conoscenza, che pur serve ma non basta.
La sedicente informazione, quella che col minor sforzo mette in mostra i nervi scoperti, è l’arma più pericolosa contro la cultura responsabile. Chissà come reagirebbero se qualcuno li mettesse all’angolo con un microfono vigliacco, domande tecniche e teoriche martellanti sul loro lavoro, sulle normative di settore, sulla sempreterna cultura generale.
È tutto lì l’inganno, smettiamola di misurare il merito degli altri per lo più senza averne gli strumenti. La comunicazione mediatica ha partorito figli ignoranti e presuntuosi, l’età anagrafica non conta, che continuano a parametrare il merito degli altri; ieri col telecomando in mano, oggi con un hashtag in tv.

Il merito che serve all’Italia è un’altra cosa ma continuiamo a chiamarlo col nome sbagliato. Il merito si costruisce insieme. Va riconosciuto anche quando è solo potenziale, non si può ridurre a una prova, mai come oggi serve che sia di tutti. Chi non è abituato al merito non lo sa riconoscere e valutare, forse la sfida è questa, perché è comodo diagnosticare l’ignoranza di un Paese fino a quando non ci viene chiesto di contribuire a cambiarla.
L’intelligenza o la buona volontà non bastano, piacerebbe a tutti che valesse il contrario.
E comunque non possiamo atteggiarci tutti a paladini del merito stando fermi, prima o poi qualcuno dovrà pur passare sotto la redazione di Cologno Monzese con microfono e telecamere in mano e raccontarci a che punto è l’Italia.

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