Editoriale 44. Riti del lavoro

I riti fanno presto a compiersi, pieni di inerzia come sono. Davanti a loro ci si spacca in due, tanto rassicuranti quanto monotoni. Visti da fuori, così uguali a se stessi e mai un dettaglio fuori posto, non lasciano scampo al dubbio: sono in esatta opposizione ai cambiamenti. Appena si guadagna un po’ di distanza e […]

I riti fanno presto a compiersi, pieni di inerzia come sono. Davanti a loro ci si spacca in due, tanto rassicuranti quanto monotoni.

Visti da fuori, così uguali a se stessi e mai un dettaglio fuori posto, non lasciano scampo al dubbio: sono in esatta opposizione ai cambiamenti. Appena si guadagna un po’ di distanza e li si guarda da vicino, dopo aver messo a posto orgoglio e pregiudizio, di colpo paiono come gemelli separati alla nascita, di quelli che restano identici a vita ma col bisogno irrefrenabile di ribellarsi almeno nello stile, abbigliamento o capelli che sia.

Non si offenda la poesia se scrivo che il rito bacia le rime all’abitudine.

Riunioni di lavoro, tragitti in auto o pendolarismo in treno, pause caffè, strette di mano, scadenze e consegne, pause pranzo, appuntamenti in agenda, smartphone in ricarica, abiti a cui non è possibile sfuggire, discorsi da fare, ruoli da tenere, tempi da riempire, spazi da colmare.

Il lavoro è un monumento ai riti davanti al quale ci inchiniamo tutti i giorni, coscienti o meno della nostra stabilità sulle ginocchia.

La parola ipnosi, che deriva dal greco “hypnos” e che vuol dire sonno, fu introdotta alla metà del XIX secolo guardando alle similitudini che in quegli anni sembravano esserci fra le manifestazioni del sonno fisiologico e quelle che si creavano nelle particolari condizioni ricreate dalla corrente ispirata a Franz Mesmer e a quel suo fluido che con opportune tecniche faceva passare dall’ipnotizzatore all’ipnotizzato chiamandolo “magnetismo animale”: fu lui a riproporre in Europa ciò che nei paesi orientali facevano da sempre gli sciamani. E’ dopo lo stato di trance che si torna alla condizione precedente ma con amnesia totale. Questo salto all’indietro per azzardare che i riti del lavoro, se vissuti come azioni subite dall’esterno e non interpretate come nostre, ci fanno correre il rischio di dimenticare. Molti mestieri diventano veri e propri anestetici o semplicemente buoni tranquillanti da banco; ci si lamenta della dipendenza e della ripetitività ma nel sapere che sono sempre lì per noi, più di una paziente Penelope, di certo se ne gode pure. E’ umano, sarebbe umano.

Il segnale di allarme scatta quando il lavoro ci ipnotizza e ci formatta la memoria a suo piacere. Maxwell Maltz, nell’ormai quasi introvabile Psicocibernetica, dedica un paragrafo del suo libro proprio al tema dell’ipnosi: “Non è esagerato dire che ogni essere umano è, in certo grado, ipnotizzato o da idee che egli ha accettato senza criticare dagli altri o da idee che ha ripetuto a se stesso fino a convincersi che siano vere. Tali idee negative hanno sul nostro comportamento lo stesso effetto che un ipnotizzatore di professione ottiene inculcando nella mente di un soggetto ipnotizzato idee negative. Come ad esempio dire ad un sollevatore pesi che non sarà in grado di sollevare una matita dal tavolo. L’ipnosi non indebolisce gli atleti. Essi, in potenza, sono forti come sempre ma, senza capirlo consciamente, operano contro se stessi. Prima di incontrare l’ipnotizzatore, erano incapaci di farne uso poiché non sapevano di possedere quelle idee”.

Lavorare senza coscienza è assai più pericoloso del compiere un rito che una sua dignità ce l’ha a priori nella misura in cui non si vergogna di essere com’è: uguale a se stesso.

L’errore non sta nel demonizzarne la fisiologica ciclicità ma nel perdere ogni volta l’occasione di trasformare coscientemente l’assuefazione in risorsa, la consuetudine in cambiamento.

Teoricamente i riti potrebbero spaventare i creativi che invece alla fine si appoggiano esattamente su codici pubblicitari o testuali mai troppo distanti da quelli dei concorrenti nel promuovere stesso prodotto ma di marca diversa: anche la comunicazione è un rito ma nessuno grida mai allo scandalo. Così come i riti potrebbero ossessionare i morbosi che nel lavoro mai scarseggiano: gli accaniti della perfezione, i terrorizzati dalle scadenze, i maniaci della programmazione. Esserci o diventarci fa poca differenza, sempre di schiavitù si tratta.

Vanno guardati con rispetto i riti quando ci facilitano o quando ci proteggono, sanno persino essere materni quando vogliono; ne meritano molto meno quando si lasciano cadere dall’alto con l’idea di azzerare e livellare, ispirati alla presunzione che nel lavoro si possa o debba essere tutti uguali per forza, che le azioni sia meglio rispondano sempre a procedure e protocolli e che fare distinzioni sia scorretto. Arriveremo mai a capire che il lavoro non è democratico nella misura in cui ci considera tutti uguali ma nella misura in cui ci fa esprimere l’essere singolari e non plurali?

La Lettera a una professoressa di Lorenzo Milani – il Don non serve – dovrebbe essere letto da chiunque un lavoro lo offra, lo organizzi, lo gestisca. E tenere a mente il suo passaggio nodale: “Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”.

L’uguaglianza non è esattamente il rito di cui abbiamo bisogno in Italia, anche se la politica ci si infila dentro appena può. L’identità, al contrario, sì.

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