Editoriale 46. Gli altri siamo noi

Vincenzo Pelliccione, in arte Eugene De Verdi, ha un nome che cade sempre nel vuoto se qualcuno lo pronuncia. Nessuno sa chi sia eppure è stato più che un sosia per Charlie Chaplin. La sua storia rivive fresca di stampa nel libro “Abruzzo Stars & Stripes”, regione da cui partì nel 1929 alla volta di […]

Vincenzo Pelliccione, in arte Eugene De Verdi, ha un nome che cade sempre nel vuoto se qualcuno lo pronuncia. Nessuno sa chi sia eppure è stato più che un sosia per Charlie Chaplin. La sua storia rivive fresca di stampa nel libro “Abruzzo Stars & Stripes”, regione da cui partì nel 1929 alla volta di Hollywood dove lo stesso Charlot, folgorato per la somiglianza, se lo prese come controfigura. Racconta Nicola Catenaro, dalle pagine del Corriere, che “Un giorno, a Los Angeles, gli chiesero di andare alla fermata del tram vestito da Charlot. Una trovata pubblicitaria che generò il caos. «Macchine ferme e persone che applaudivano il grande attore che credevano io fossi, crearono un ingorgo spaventoso. Ebbi un colpo di genio e incominciai a dirigere il traffico. Il pubblico mi acclamava, finché ebbi paura di tanto fanatismo e mi rifugiai nel teatro. Qui l’impresario mi guardò stupito: “Che hai fatto? Credevi di essere Charlot?”».

Esattamente questo è il punto: chi ci crediamo di essere? La risposta d’istinto chiama in causa un cinquanta per cento di possibilità: o siamo chi decidiamo di essere o siamo chi diventiamo agli occhi degli altri. Ascoltato l’istinto ma irrobustito di consapevolezza, è difficile negare che l’identità si giochi nella relazione. Senza gli altri siamo solo noi stessi.

Fa un certo effetto pensare alla controfigura di un attore: una persona che già recita la vita di un altro e sostituita a sua volta da uno che le somiglia. Come in un telefono senza fili, l’identità può scorrere di mano in mano rischiando di farsi male per via delle interferenze lungo il percorso o arrivando a snaturarsi e a perdere di sostanza. E’ possibile maneggiare un ruolo che non ci appartiene purché l’interazione non sacrifichi il rispetto e il contatto non lasci impronte.

Controfigure, copie e doppioni hanno una loro gerarchia e non sono affatto sinonimi.

Non serve stare sul set di un film per ricorrere a controfigure, al contrario le vediamo ogni giorno; non ce ne accorgiamo semplicemente perché cambiano i contesti ma non le valenze e usiamo nomi diversi per indicare situazioni simili. Siamo davanti a controfigure ogni volta che il capo ci manda a qualche suo appuntamento col nostro stipendio. Succede al collega che si prende di nascosto i nostri meriti, al giornalista che non cita le fonti quando copia un testo da un altro, all’impiegato dello sportello reclami costretto ad accogliere malumori che non lo riguarderebbero.

Le copie piacciono meno perché sanno di gesto passivo e credersi unici è il vezzo di ognuno. Le contraffazioni già infastidiscono quando intaccano i consumi, figuriamoci quando ad esser mistificati sono le idee e lo sforzo creativo. “Vergognatevi copioniStefano Gabbana lo ha scritto pochi giorni fa di suo pugno a Max Mara, firmando una pagina pubblicitaria di giornale prima di caricarla sui social. Chi ci copia non ci somiglia mai e proprio per questo viene a rubarci l’invisibile.

Infine il doppione, un sostituto innocuo. Il lavoro ci duplica quando i conti non tornano e le produzioni incombono. Le sostituzioni aziendali hanno l’odore della riserva: nessuno toglie niente all’altro, quasi sempre si rimpiazza a tempo, non è richiesta creatività, da fuori è difficile accorgersi dell’avvicendamento. C’è sempre anonimato nel doppione ma in sé può generare una risposta funzionale alle necessità e coprire un bisogno senza troppo dispendio: la copia vive in autonomia, il doppione aspetta il suo turno.

Gli altri siamo noi anche quando non vorremmo e abbiamo con loro più intersezioni di quanto saremmo disposti a credere: se questa idea ci infastidisce, è probabile che non ci sia ancora ben chiaro il nostro senso di identità ricalato nel reale.

Gli uccelli migratori, da soli, non riuscirebbero a compiere le traversate di cui sono capaci. L’ibis eremita, in via di estinzione fino a pochi anni fa, è al centro del progetto cofinanziato dall’Unione Europea “Reason for hope” voluto proprio per la reintroduzione in natura di questo esemplare: a lavorarci sono stati i ricercatori austriaci del Waldrappteam e il Parco Natura Viva di Bussolengo ha offerto il suo supporto, unico partner italiano.
Gli ibis sono tutti dotati di anello identificativo e gps, utili a monitorarli nelle migrazioni primaverili attualmente in corso. La rotta prevederebbe il volo da Orbetello fino a Salisburgo e in Baviera e la maggior parte di loro ha già compiuto il viaggio. Però c’è un’eccezione, si chiama Idefix, e il suo anello 029 ha registrato una traiettoria in direzione completamente opposta: è tornato a sud, in quel Gargano dove lo scorso anno aveva trascorso la primavera, l’estate e l’accenno dell’autunno. Lui sta bene laggiù, non riesce a seguire il gruppo, la sua identità lo porta altrove. Le eccezioni sono ammesse sempre.

Capire da che parte stiamo è a dir poco necessario ma presuppone conoscenza e coerenza interiore; saperci mettere nei panni degli altri è altrettanto indispensabile. E’ nella misura del nostro senso del limite che possiamo farci i conti in tasca e decidere se siamo in grado da soli di farcela o se ci serve ricorrere all’esterno: ha fatto male i conti anche Charlize Theron che si è da poco rotta i denti sul set del nuovo film, “Atomic Blonde”. Lo ha rivelato lei stessa dopo la prima proiezione in Texas, al South by Southwest Film Festival di Austin, raccontando di non aver voluto una controfigura per le scene più movimentate pensando che “tanto avremmo fatto finta a dare calci o a sollevare in aria grossi ceffi”. Eppure il regista era stato chiaro nel dire che sarebbe stato tutto vero.

Entrare nella parte aiuta a renderci la vita meno astratta ma a entrarci troppo rischiamo di farci pure male. Una controfigura, ogni tanto, concediamocela con un po’ più di leggerezza.

 

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