Editoriale 49. Le dimensioni contano?

Ossessionati dalle misure, è così che ci siamo ridotti. Taglie, altezze, pesi, voti, resoconti. Se fin da piccoli non venissimo valutati a numeri ma a parole, qualcosa andrebbe diversamente nella crescita generale e viene da scommettere che sarebbe migliore. Un tre o un quattro a scuola sanno dirci perfettamente dove stanno sulla scala dei valori […]

Ossessionati dalle misure, è così che ci siamo ridotti. Taglie, altezze, pesi, voti, resoconti.

Se fin da piccoli non venissimo valutati a numeri ma a parole, qualcosa andrebbe diversamente nella crescita generale e viene da scommettere che sarebbe migliore. Un tre o un quattro a scuola sanno dirci perfettamente dove stanno sulla scala dei valori così come una produzione industriale non può lasciar fiato nemmeno a un millimetro di errore in più o in meno. Le misure possono darsi un tono perché sono esatte, al contrario le parole vivono di sfumature relative, e di costanti interpretazioni, che sulle tacche rigide del metro non ci sanno nemmeno entrare.

A dire il vero, finora anche coi numeri ce la siamo cavata tra approssimazioni e arrotondamenti ma il destino è segnato, complice la sempre più stretta interazione tra uomini e robotica che negli ultimi anni ha spinto non poco per far sì che misurare diventasse un’azione sempre più microscopica e accurata. Intorno a noi ogni cosa pare scalpitare di conferme.

Il Bureau international des poids et mesures ha la sua sede a Sèvres, in una zona franca intorno a Parigi dove per il diritto internazionale gode dello status imparziale di extraterritorialità: parliamo dell’organizzazione di metrologia col compito di garantire in tutto il mondo l’uniformità dei metri di misura, quelli che dal 2018, pur restando invariati nei nomi, si faranno ancora più precisi ispirandosi non più ai principi della fisica classica ma di quella quantistica.

A parole è un’altra cosa, più soggettività e meno rigore. Le dimensioni contano finché non fanno male a nessuno perché il tarlo nascosto sta nel giudizio di merito sotteso, nel confronto con gli altri che contagia prima i piccoli uomini e poi quello che diventeranno da grandi. Misurare fa male quando assolve o condanna.

Alle parole non interessa essere corte o lunghe; loro cercano l’affondo nella profondità e possono farsi pesanti o leggere a seconda di chi se le mette in bocca e di come le butta giù.

Fare bilanci è all’ordine del giorno ormai per tutti, ce lo aspettiamo più dalle persone che dalle aziende e il dubbio sta sempre nel certificarne i contenuti perché quando i calcoli te li fai in casa il problema è serio.

Quanti libri leggiamo in un anno lo calcoliamo in numeri, e pure quante persone nuove conosciamo. Quanto ci pesa il nostro mestiere non ha un metro di misura oggettivo tanto quanto dare un valore al senso di responsabilità di un capo o di un collega ma non per questo azioni più impalpabili contano meno di una valutazione a numeri.

Quando è possibile, ben venga misurare a parole perché è con la soggettività che si invoca lo scambio. Nel suo libro “Il mestiere dello scrittore”, Murakami sfiora con delicatezza un caposaldo esistenziale per chiunque: quanto spazio ci serve per esprimere chi siamo? “Il racconto è un veicolo agile e flessibile che coglie alcune cose meglio di quanto non faccia un romanzo. Nel racconto, quando va bene, posso dare forma a certi aspetti della mia interiorità, come se setacciassi con una rete finissima. Un racconto non prende molto tempo. Non richiede né preparazione né nulla. Volendo posso scriverlo in qualche giorno tutto di filato. In certi periodi questo tipo di lavoro leggero e flessibile è proprio quello che mi ci vuole. Tuttavia nel racconto non c’è abbastanza spazio per farvi entrare tutto quello che ho dento di me”.

Andandone a cercare una definizione oggettiva nella meccanica, la dimensione di un corpo è intesa come il numero di “gradi di libertà disponibili” per il suo movimento nello spazio. Gradi di libertà disponibili è un concetto che suona amico anche come parametro personale tutte le volte in cui segretamente ci interroghiamo quanto stiamo davvero stretti o comodi dentro la vita che facciamo. Il fatto è che ci capita di sbagliare non di rado il metro di misura a cui affidare le risposte.

Il mondo si dilata e si restringe in base al punto di osservazione che scegliamo come leva così come il salto in una direzione sarà più o meno lungo a seconda della determinazione in fase di rincorsa. Lo sanno bene i rigoristi che sbagliano per presunzione.

Misuriamo tutto anche senza averne coscienza, misuriamo per pigrizia, noia o per semplice ignavia. Assegnare un valore a cose o persone fuori di noi ci rabbonisce i sensi di colpa e ci placa i peggiori istinti di giudizio; è su noi stessi che il misurare genera ansia perché i numeri, che se ne vanno a testa alta per la loro strada, ci rimandano immediatamente la distanza da percorrere per arrivare alle aspettative che poi non sono mai il traguardo vero.

Al contrario, non contano le dimensioni quando si tratta di sentire per purezza; basta guardare ai bambini che avvertono prima dei grandi la tossicità di un luogo ma non quella delle persone nocive che hanno accanto e non è un passaggio da poco riflettere sul bagaglio di fiducia con cui stiamo al mondo: la fiducia si conta su scale pericolosamente soggettive ma maledetto sarebbe il mondo se non fosse più così.

Nemmeno la politica può evitare le misure.

Gli occhi del mondo rischiano lo strabismo, spaccati tra un Trump e un Macron. Il nuovo inquilino all’Eliseo cerca ora di accreditarsi come il Presidente di tutti e ancora una volta i discorsi di insediamento sono quel fiume di parole che tutti vorrebbero sentire ma a cui nessuno crede più. E’ su quei discorsi che il loro lavoro verrà inesorabilmente misurato e messo a confronto con chi alle elezioni precedenti si era azzardato negli stessi abissi: recuperare l’identità del Paese, restituire la dimensione economica, affermare una politica internazionale. Macron si è addirittura sbilanciato con un “Noi abbiamo un ruolo immenso nel mondo”.

E come si misura, oggi, l’immenso? La solita grandeur francese.

CONDIVIDI

Leggi anche

Editoriale 87. Le parole del lavoro

Ora et labora avrebbero bisogno di cambiare senso e sintassi perché qui tocca pregare per trovare un impiego. Non è facile scrivere di parole del lavoro in mezzo alle ore roventi dell’(ex) Ilva, e si fa fatica a non chiamarla più così e dirla alla francese perché Ilva resterà sempre marchiata col suo nome aldilà di […]

Editoriale 57. Di resistenza

Se è vero che la pancia è il nostro secondo cervello, gli Inca hanno qualcosa in più da dirci. Una analisi fresca di pubblicazione su Genes documenta che “prima ancora che gli antibiotici fossero scoperti, esistevano già batteri resistenti a questi farmaci dentro l’uomo”: è stata da poco studiata la flora intestinale di otto mummie […]

Editoriale 22. La Selezione

Se per ottenere un posto di lavoro guardassimo al Festival di Sanremo, oggi al via, ne vedremmo delle belle. I parallelismi non mancano e sono pure curiosi. C’è una sezione per i campioni e una per i giovani, quei giovani che chiamano da sempre nuove proposte: distinzione sacrosanta per una competizione dove il nuovo si […]