Editoriale 85. Consulente, ho peccato!

C’è chi non si azzarda a darti un consiglio nemmeno su cosa ordinare al ristorante e chi si prende la briga di organizzarti la vita dalla a alla zeta anche quando non richiesto. C’è addirittura chi di mestiere i consigli lì dà, ci misura le parole intorno alle competenze, sta spalla a spalla con le […]

C’è chi non si azzarda a darti un consiglio nemmeno su cosa ordinare al ristorante e chi si prende la briga di organizzarti la vita dalla a alla zeta anche quando non richiesto. C’è addirittura chi di mestiere i consigli lì dà, ci misura le parole intorno alle competenze, sta spalla a spalla con le persone a forma singola o di azienda e prima le annusa per capirle e poi le orienta, chi si forma a ciclo continuo per incarnare tutta l’etica possibile e la conoscenza auspicabile; giustamente, si fa pagare. 

Chi fa il consulente ha scelto di puntare su se stesso correndo persino il rischio di sopravvalutarsi, sottovalutarsi, sovraesporsi, sconfinare, stagnare, strafare. La lista delle sue azioni, in forma di vizi o di virtù, è ben più lunga. Non è in discussione che si tratti di un mestiere di carattere a patto che il carattere a un certo punto venga fuori: un parere, un’assistenza o una qualsiasi indicazione rivendicano la convinzione di chi li mette in palio. Del resto chi si fiderebbe di un consiglio dato a metà, tremolante nelle ragioni, lasciato in sospeso o detto male? In pochi sarebbero disposti nella vita privata, figuriamoci se dopo il consiglio arriva persino una fattura da pagare.

In effetti il compenso è parte integrante della questione prima ancora che del mestiere.

“La Direzione Generale ‘Sistema Bancario e Finanziario-Affari Legali’ del Dipartimento del Tesoro intende avvalersi per un supporto tecnico a elevato contenuto specialistico nelle materie di competenza della consulenza a titolo gratuito di professionalità altamente qualificate. La consulenza avrà ad oggetto la trattazione di tematiche complesse attinenti al diritto – nazionale ed europeo – societario, bancario e/o dei mercati e intermediari finanziari in vista anche dell’adozione e/o integrazione di normative primarie e secondarie ai fini, tra l’altro, dell’adeguamento dell’ordinamento interno alle direttive/regolamenti comunitari.(…) Si richiede consolidata e qualificata esperienza accademica e/o professionale documentabile (di almeno 5 anni), anche in ambito europeo o internazionale, negli ambiti tematici del diritto societario, bancario, pubblico dell’economia o dei mercati finanziari o dei principi contabili e bilanci societari” e “lingua inglese fluente”.

Quando lo scorso febbraio dal sito istituzionale del Ministero dell’Economia e Finanza sbucò questo bando, le polemiche furono talmente spinte – dai media, sui social per bocca delle persone comuni, dalle dichiarazioni di alcuni politici di opposizione, negli ambienti dei liberi professionisti – che salirono fino in cielo e solo pochi giorni fa sono precipitate nuovamente a terra.

“Se la consulenza è occasionale e si basa su regole non rigide, allora è legittimo che la pubblica amministrazione non corrisponda alcun compenso al professionista, specie se per il consulente può derivarne un arricchimento professionale. E a nulla valgono le regole sull’equo compenso: perché se il compenso in denaro non è stabilito, allora non si può neanche pretendere che sia equo”.

Il Tar Lazio ha chiuso il mese di settembre depositando in merito una sentenza con tali parole. E il mondo dei liberi professionisti ha tuonato, di nuovo fino in cielo. Dei commenti raccolti a caldo, la definizione di sentenza pericolosa l’ha data subito Egidio Comodo, Presidente di Fondazione Inarcassa. “È un segnale importante che la questione sollevata dai giudici del Tribunale Amministrativo del Lazio sia giunta all’attenzione del Parlamento, del Ministro della Giustizia e del Mef con una interrogazione presentata al Senato. Il valore economico della prestazione professionale non solo è garante della difesa della dignità dei liberi professionisti ma anche della qualità dei servizi erogati ai cittadini e per nessun motivo il principio dell’equo compenso può essere messo in discussione”.

L’incarico professionale è evidentemente l’epicentro della scossa e si sta ancora cercando di capire a quale distanza si trovi rispetto alla superficie di vita e di lavoro in cui migliaia di liberi professionisti puntano ogni giorno sul proprio cavallo sperando sia quello vincente.

Il 9 ottobre scorso i senatori De Bertoldi e Siriani, in quota FdI, hanno presentato un’interrogazione parlamentare per chiedere delucidazioni ai due Ministri di Economia e Giustizia. Vedremo.

Quando paghi un consulente non sai mai se lavorerà da stunt-man o da attore primo, quanto sarà disposto a farti da controfigura in mezzo alle crisi, a che livello di relazione imposterà il legame di lavoro, se sarà capace di dirti la verità in carne e ossa o quella più comoda al limite del servile. 

Un buon consulente si vede da chi lo sceglie: come nelle coppie, la responsabilità è un cinquanta e cinquanta; prima di affidare qualsiasi incarico, il consiglio è di farsi un proprio esame di coscienza aziendale e solo dopo responsabilizzare l’istinto per distinguere i consiglieri dai consulenti. Le domande giuste si fanno in casa, le risposte possono arrivare anche da fuori.

Ci vorrebbe anche un segnale di pericolo per le grandi società di consulenza che attraggono centinaia di neo laureati – tra l’altro entusiasti di farsi sfruttare e di girare a vuoto pur di poter spendere quel nome nelle piazze sociali –  pienamente coscienti del fatto che non insegneranno mai una professione ma un vizio: sono fabbriche di slide e di fascicoli dalla vita breve e inutile, giusto il tempo di passare dalla scrivania della società a quella dell’azienda committente, pagante, tangente. Brutta parola, mi è scappata.

Non sono però né la prima né l’ultima a pensare che le consulenze di oggi siano le tangenti di ieri o forse esistevano già in parallelo e si ritagliavano ognuna una fetta d’ombra. Alla luce del sole lavora al contrario la maggior parte dei consulenti seri, la faccia pulita e le mani pulite.

Gli aggettivi che marcano i consulenti stanno ormai dappertutto, non c’è settore in cui non ci venga rimandata la sensazione di aver bisogno di loro e di essere diventati incapaci su tutto: finanziari, digitali, politici, legali, tecnici, psichiatrici, d’ufficio, aziendali, informatici, commerciali. 

Mancano all’appello solo quelli religiosi ma solo perché non abbiamo ancora abbastanza fede in loro.

Le percezioni dei bisogni ingannano tanto quanto la pubblicità, bene a sapersi.

Anche gli influencer entrano di diritto nella categoria? Ce lo siamo chiesto e siamo andati a scavare nei contratti che regolano il loro rapporto con le aziende.

I social network sono diventati le nuove piazze che orientano i destini e c’è un esempio, su tutti, che offre la misura: le diete di gruppo su Facebook. Sono decine e decine le community messe in piedi da esperti che offrono consulenze alimentari e nutrizionali. Indicano cosa mangiare, quanto e come. Si presentano come consulenti positivi, solidi, affidabili.

Non sanno niente della vita di chi stanno consigliando, non sanno che anamnesi c’è alle spalle, non conoscono gli stili di vita, non hanno visibilità dei parametri di base per calibrare un regime alimentare, non sono interessati alla loro salute ma ai click che portano soldi e acqua al mulino di cui gli ignari nemmeno si accorgono. Di tali esperti quasi mai si conosce un’identità dietro la parvenza di community felici e gremite eppure migliaia di persone li seguono per mettere una vita in mano loro.

Il livello di attenzione su noi stessi è sceso fin troppo.

Anche un’azienda è un organismo vivente che chiede di mangiare, fare movimento e avere buone relazioni per crescere quando è ancora piccola e per stare in equilibrio una volta adulta.

Ricordiamocelo quando avremo bisogno della prossima consulenza.

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