Editoriale 87. Le parole del lavoro

Ora et labora avrebbero bisogno di cambiare senso e sintassi perché qui tocca pregare per trovare un impiego. Non è facile scrivere di parole del lavoro in mezzo alle ore roventi dell’(ex) Ilva, e si fa fatica a non chiamarla più così e dirla alla francese perché Ilva resterà sempre marchiata col suo nome aldilà di […]

Ora et labora avrebbero bisogno di cambiare senso e sintassi perché qui tocca pregare per trovare un impiego.

Non è facile scrivere di parole del lavoro in mezzo alle ore roventi dell’(ex) Ilva, e si fa fatica a non chiamarla più così e dirla alla francese perché Ilva resterà sempre marchiata col suo nome aldilà di chi si prenderà l’animo di gestirla. Si fatica a scrivere di parole del lavoro anche in mezzo all’acqua che si ribella tra Venezia e Matera perché in mezzo a quei metri cubi liquidi ci scorrono i fiumi di parole senza azioni e di progetti senza coscienze firmati negli anni da politica, istituzioni, consulenti, esperti, imprese, tecnici.

C’è chi affoga sott’acqua e chi ci affoga di parole.

Parole del lavoro è un’espressione che ricorda l’ossimoro, tanto stridono nella rispettiva essenza: da una parte il dire e dall’altra il fare, esattamente la fessura che diventa il baratro di un’Italia chiacchierona e inconcludente. Pensare, dire e fare sarebbe l’ordine corretto che noi invece costantemente stravolgiamo e, mai come in questi casi, invertendo l’ordine degli addendi il risultato cambia.

Mi fa male ogni volta che giro l’Italia e sento dire quanto sia ignorante la classe dirigente, quanta poca attenzione venga messa sulla coerenza tra il fatto e il promesso, quanta distanza effettiva vivano i dipendenti dentro aziende che misurano le loro vite solo in busta paga e mai una parola. Le eccezioni? Esistono, certo; servono da monito controcorrente al sistema, certo, ma da sole non finalizzano lo scopo. 

Ci sono parole che dovremmo tenacemente risparmiare e parole che dovremmo accuratamente dire. Di un Presidente o Amministratore delegato di casa nostra molti dipendenti non sanno nemmeno che voce abbia, non ci possono parlare perché distanti o blindati o troppo presi da altro, ne sentono il timbro solo alle cene di Natale e a Natale si sa che fingiamo tutti di essere più buoni. 

Le parole delle aziende vanno dette ogni giorno.

O quei politici che aprono le conferenze stampa o i convegni e poi subito salutano, si scusano di doversene andare prima per altri impegni e tutti giù a batter le mani per ringraziare di tanta sfacciata ipocrisia.

I nostri luoghi di lavoro bandiscono a priori i sentimenti che pure sono fatti di parole anche se non escono di bocca. I sentimenti fanno paura perché vanno gestiti, scavati a mani nude e accolti da capo a piedi: figuriamoci pretenderlo su un posto di lavoro dove in media c’è potere e controllo, dove ti chiedono di produrre senza distrazioni, rispettare processi e procedure, fare e non dire, rapporti di lavoro purché nessuna relazione di cuore dove il divieto di matrimonio messo tacitamente nero su bianco nei contratti di certe aziende è solo la punta affilatissima di una lama sottotraccia.

I sentimenti sono parole che prendono posizione: il futuro del lavoro dovrà averne sempre meno paura se vuole sopravvivere con persone che legittimamente stanno alzando la testa e raccontando ciò che provano.

Lavoro, di per sé, potrebbe farsi madre di tutte le altre parole ma l’abbiamo fatta abortire da decenni: la percezione ha superato la realtà e le paure hanno ossidato le speranze.

Lavoro è un vocabolo che abbiamo subdolamente inaridito in numero.

Lavoro è diventato un dato, una statistica, un andamento, un tasso.

Lavoro è vissuto come un problema.

Lavoro è ormai la controfigura di ciò che potrebbe essere.

Penso ai comizi, alle mense aziendali, ai salotti della politica, alle piazze in sciopero, ai Consigli di Facoltà, ai CdA delle aziende, ai congressi, alle aule di formazione, agli ospedali, ai tribunali, alle scuole, agli uffici pubblici, ai camerieri in sala, alle assemblee sindacali, ai call center e potrei continuare all’infinito.

Ognuno di questi contesti ha un proprio linguaggio ma ognuno di questi contesti parla solo a se stesso, parla solo internamente, parla e non comunica, il suo fare non si ossigena all’esterno. Lo stallo di sistema di cui ci crediamo soltanto spettatori in realtà chiama in causa la responsabilità del singolo.

Parlare è relazione, a maggior ragione in questa contemporaneità asfissiante sull’io che ci ingloba dentro microcosmi troppo simili a come siamo già fatti. 

Le parole chiedono fiducia ma forse solo loro a non fidarsi più di noi dopo che le abbiamo così tanto livellate verso il basso. Il mondo del lavoro ha perso le sfumature di luce della lingua perché si appoggia d’inerzia ai tecnicismi, alla rapidità dell’inglese e al precotto di settore. 

Quali parole stiamo lasciando ai giovani e che linguaggio stiamo usando con loro? I ragazzi ci stanno ascoltando ma noi non ci stiamo parlando: tra una ventina d’anni saranno loro a gestirci le vite e il mercato del lavoro e meno ci capiamo oggi, meno ci capiremo domani. Più impoveriamo loro i pensieri e la fiducia, più li lasceremo aridi di linguaggio. Meno leggiamo, meno abbiamo parole da pescare. Più parliamo ai giovani di macchine e di dati, più faticheranno a tradurre i sentimenti che hanno.

Continuiamo a mostrare loro i soliti modelli e il discorso di Steve Jobs ai laureati di Stanford l’ho sempre trovato ipocrita per un genio come lui che ha inventato tanto futuro rubandoci tanto passato. Essere affamati e folli rischia brutte derive. Le innovazioni che ci snaturano hanno forse un buco di sistema? Chiedercelo è doveroso.

E se mostrassimo ai giovani il discorso di George Saunders ai neolaureati della Syracuse University dove insegnava nel maggio del 2013? Saunders è uno scrittore americano sempre più amato per il modo con cui sta rimettendo insieme i pezzi di una cultura sociale ridotta a brandelli ed è stato incluso dal New Yorker nella lista dei «Venti scrittori per il 21° secolo» .

Quando mi guardo indietro vedo che ho passato gran parte della vita offuscato da cose che mi spingevano ad accantonare la gentilezza. Come l’ansia, la Paura, l’insicurezza, l’ambizione, la convinzione sbagliata che il successo mi avrebbe liberato da tutta quell’ansia, paura, insicurezza e ambizione. La convinzione che solo se fossi riuscito ad accumulare – successi, soldi, fama a sufficienza – le mie nevrosi sarebbero sparite.

Usò per loro esattamente queste parole, finite l’anno dopo nel libro “L’egoismo è inutile. Elogio della gentilezza”.

Non dimenticate di essere gentili. Ciò che rimpiango di più nella mia vita è aver mancato di essere gentile e mi riferisco a quei momenti in cui davanti a me c’era un altro essere umano, addolorato, e io ho reagito razionalmente, in modo riservato o con un certo distacco.

Il lavoro è fatto a scale, c’è chi scende e si fa male.

Il lavoro dovrebbe alzare la voce per rivendicare a voce più alta una dignità di relazione e non solo di salario.

Ogni volta che entro in una libreria e sbatto gli occhi sui libri di management penso sempre la stessa cosa: ma chi li compra?  La domanda successiva – inevitabile, guardandomi intorno nel desolante panorama aziendale – è: ma chi li legge? Una cosa è comprare, una cosa è leggere, una cosa è agire: le parole che non si alzano in piedi dalle lettere non arrivano lontane.

Faremmo bene a intercalare ogni tanto un po’ di silenzio e un po’ di passi avanti non fosse altro perché il lavoro è rimasto senza parole.

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