Editoriale 92. Non dire donna

Le donne convinte di avere superpoteri per gestire la propria vita e quella degli altri partono già col piede sbagliato perché incontreranno prima o poi qualcuno che le fermerà con semplice criptonite. Le donne che raffigurano altre donne come eroine stanno facendo loro un torto. Le donne che mettono in piedi gruppi o associazioni escludendo […]

Le donne convinte di avere superpoteri per gestire la propria vita e quella degli altri partono già col piede sbagliato perché incontreranno prima o poi qualcuno che le fermerà con semplice criptonite.

Le donne che raffigurano altre donne come eroine stanno facendo loro un torto.

Le donne che mettono in piedi gruppi o associazioni escludendo gli uomini sono le prime a castrare il genere femminile.

Le donne sicure di avere la sensibilità in pugno rispetto agli uomini, di fatto la sprecano.

Le donne che sbraitano per rivendicare la parità di genere sono le stesse che magari si mettono in competizione già in strada con uno sguardo, senza conoscersi, per un’inezia.

Le donne che pretendono di essere viste per quello che sono, senza sapere ancora cosa vogliono essere, non stanno tirando acqua al proprio mulino.

Si potrebbe continuare a oltranza per argomentare qualche tesi spesso taciuta: la prima è che il genere è un tessuto delicatissimo e che, ancora troppo frequentemente, si danneggia da solo. La seconda è che continuiamo invece a sfruttarlo come fosse acciaio, a spostarlo dai congressi alle ricerche, a parlarne a vanvera dagli otto marzo ai fiumi di libri, a ricordarlo tra le priorità politiche e aziendali (a conferma che, altrimenti, nel quotidiano se ne dimenticherebbero). 

La questione seria è che noi donne non abbiamo il coraggio di dirci fino in fondo una cosa: abbiamo incarnato talmente in profondità gli stereotipi millenari che ce li ritroviamo nel sangue e abbiamo finito per crederci anche noi. Inutile continuare a rivendicare un’identità da fuori se non ne siamo convinte per prime da dentro.

Il più dirompente di quegli stereotipi è l’ossessione della bellezza.

Capita a dieci donne su dieci di essersi sentite più gratificate davanti a un “come sei bella” rispetto ad un “come sei intelligente”. Essere valutate per il nostro fare ci regala indubbiamente soddisfazione profonda ma dobbiamo allenarci ancora parecchio per arrivare a provarne ancora di più del sentirci giudicate per l’aspetto. Intendo la gratificazione segreta, quella che diciamo solo a noi stesse e che non possiamo confessare fino in fondo.  Ammetterlo farebbe sentire di colpo tutto il rumore del crollo di posizione – e della dignità con cui cerchiamo di farci largo – ma la realtà non è così lontana da questa cruda semplificazione.

Ricordo ancora una Giovanna Mezzogiorno che molti anni fa ricordava come suo padre la invitasse da bambina a non specchiarsi spesso e a stare il più lontano possibile dallo specchio, dal culto della bellezza e dalla sua dipendenza.

Renee Engeln è una psicologa che insegna alla Loyola University. Una delle sue prime ricerche di dottorato partì dal desiderio di ribattere alle argomentazioni di molte donne convinte che l’intelligenza permettesse loro di ignorare gli ideali di bellezza. Lei non era affatto concorde con quella tesi perché, se fosse stato così semplice, le donne in difficoltà sarebbero state certamente di meno. Affidò quindi a diverse centinaia di studentesse il seguente compito: “Molti ricercatori hanno studiato l’aspetto della donna in base agli standard della nostra società. Riflettete su come tale donna si presenta e descrivetela. Ora vi prego di immaginare in che modo cambierebbe la vostra vita se le somigliaste. Che differenze ci sarebbero?”.

Ricevette risposte talmente sconvolgenti da decidere di sospendere in anticipo la ricerca.

Molte scrissero che, se fossero state belle, sarebbero finalmente state in grado di concentrarsi sui propri talenti innati, sulle proprie capacità, sulle attitudini. O che, se fossero state belle e rispondenti agli standard, non avrebbero dovuto gestire disturbi alimentari, evitando così problemi a se stesse e ai familiari, o che le persone intorno le avrebbero trattate meglio e le avrebbero considerate migliori.

Negli anni ’80 venne persino coniata l’espressione “normative discontent” (insoddisfazione normativa): era riferita solo alle donne, perché era normale che solo loro manifestassero disagio per il proprio aspetto fisico guardandosi allo specchio. Era normale.

Succede ancora, è ancora normale, ma noi donne continuiamo a spostare altrove lo sguardo. Succede anche se studiamo, anche se siamo profondamente più mature di qualche decennio fa, anche se non abbiamo più (apparenti) sbarramenti all’ingresso, anche se razionalmente sappiamo che la bellezza non dovrebbe essere il metro di misura, anche se sappiamo rielaborare bene l’oggi rispetto a ieri. Siamo intrise, fin sottopelle, dell’idea che la bellezza fisica sia la risorsa più importante che abbiamo a disposizione.

Ce la ricordiamo o no la polemica su una Hillary Clinton in piena cavalcata verso la presidenza degli Stati Uniti, stritolata dai media americani perché si era presentata in pubblico struccata, con gli occhiali, persino con un elastico tra i capelli? Alla donna che stava sperando di fare il rumore più fragoroso della storia umana era stato teso il più banale sgambetto da femmina.

Quando si parla di donne, la confusione rimbomba da ogni lato.

A quella di noi donne si somma quella del mondo del lavoro, incoerente tra valori dichiarati e gesti compiuti. Tempo fa mi ritrovai in mezzo ad una conversazione sulla presenza schiacciante degli uomini in alcuni settori: in quel caso l’informatica, anzi l’ingegneria informatica. Un dato inequivocabile motivato già in partenza dal minor tasso di adesione a studi di quel genere in età universitaria da parte delle ragazze. Il problema è un altro: la cultura delle aziende. Pochi anni fa Microsoft dovette gestire non poche conseguenze per aver ingaggiato ballerine parecchio svestite che riproducevano il modello delle scolarette, con minigonne scozzesi e bianchi reggiseni. Erano state chiamate alla convention “semplicemente” per esibirsi con un balletto dopo la conferenza. Come dovrebbero sentirsi certe studentesse appassionate di ingegneria informatica all’idea di lavorare per Microsoft o per quel settore se il modello femminile che propongono è quello? I passi falsi sono infiniti nel mondo del lavoro, spesso a partire dai grandi nomi che dovrebbero capire la propria responsabilità culturale verso l’esterno.

L’ipocrisia dilaga.

Quello che le donne non dicono è molto più di una canzone. Non dicono che sono le prime a rifiutare il modello maschile con cui si costringono a copiarli, non dicono che hanno una voglia matta di essere alla pari ma fino a un certo punto, non dicono che quando vanno al potere – e toccano la vetta – si fanno quasi schifo per come di quel potere incarnano il peggio, non dicono fino in fondo lo sforzo di dover lottare tra donne mentre vanno incontro agli uomini a difendere il genere, non dicono a voce abbastanza forte che il tempo interessa loro più dei soldi.

Non capita a tutte, sia chiaro, e non capita sempre. Ma capita ancora e capita spesso.

Per ogni donna che si sottostima e si colpevolizza di non riuscire ad arrivare dove arriva un uomo, c’è certamente un uomo che quel problema non se lo pone nemmeno e procede senza limiti sociali, culturali, tanto meno personali: chi gestisce il lavoro, e in azienda lo organizza, dovrebbe tenerne conto perché si parla di condizionamenti antichi, non di caratteri.

Che ne facciamo, allora, dell’ossessione della bellezza cui abbiamo delegato il giudizio da noi stesse e dagli altri? Che ne facciamo del fatto che non siamo così convinte di voler essere alla pari degli uomini per il semplice fatto che non siamo ancora alla pari tra noi donne e, ancor prima, con noi stesse?

È il tempo della negoziazione, liberatorio e catartico: negoziare con una parte di noi, negoziare tra donne. La negoziazione non è mai rinuncia ma buon risultato per entrambi.

È tempo di gettare la maschera e non la spugna, tempo di dichiarare onestamente chi siamo e cosa vogliamo. Tempo di non vergognarci più di ammettere che magari il modello del correre verso il vertice non fa per noi perché amiamo portare i tacchi alti e non siamo disposte a rinunciare alla bellezza purché figlia di un pensiero nuovo.

Il lavoro ci apre le stesse porte degli uomini ma subdolamente ce le sbatte ancora in faccia; potrebbe essere così all’infinito, rischiando di farci impiegare le energie giuste nella direzione sbagliata. Qualche varco da aprire potrebbe già esserci, se guardiamo bene: magari il digitale non ha ancora fatto in tempo a diventare sessista.

Che avesse ragione Zenone col suo paradosso di Achille e della tartaruga?

Il filosofo voleva dimostrare che il movimento fosse un’illusione e che Achille, per quanto di gran lunga più veloce dell’animale, non l’avrebbe mai raggiunta per via del cospicuo vantaggio che aveva concesso. Si sarebbero rincorsi all’infinito perché, nel tempo impiegato da Achille a colmare il vantaggio iniziale, la tartaruga avrebbe comunque percorso altra strada.

Ho la sensazione che il potere non sia ciò che cerchiamo di ottenere – quel tipo di potere – e che dovremmo piuttosto aprirci un terreno diverso, non emulante i modelli maschili, pronto all’uso per come siamo fatte, relazionale col mondo intorno e non individuale, meno conflittuale con gli uomini, più complementare col tutto, meno frustrante da ottenere, finalmente espressivo della nostra natura. Forse, senza nemmeno saperlo, potremmo già essere la tartaruga e il rincorrere all’infinito potrebbe non essere più un nostro problema.

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