Fotografia di un gigantesco outlet, l’Italia

“Gli imprenditori italiani stanno svendendo l’italianità, le aziende straniere che comprano la usano per veicolare l’identità che non possiedono, questo approccio porterà allo svuotamento dei valori ereditati, costruiti dalle generazioni precedenti”, parola di Gianluigi Zenti, fondatore di Academia Barilla. L’anno scorso, in Italia, sono stati firmati 577 accordi di fusioni ed acquisizioni di aziende, per […]

“Gli imprenditori italiani stanno svendendo l’italianità, le aziende straniere che comprano la usano per veicolare l’identità che non possiedono, questo approccio porterà allo svuotamento dei valori ereditati, costruiti dalle generazioni precedenti”, parola di Gianluigi Zenti, fondatore di Academia Barilla.

L’anno scorso, in Italia, sono stati firmati 577 accordi di fusioni ed acquisizioni di aziende, per un valore complessivo di oltre 54 miliardi di euro. Soltanto 13 le transazioni di valore superiore al miliardo di euro, e gli investimenti stranieri sono circa la metà del valore totale del mercato nazionale delle fusioni ed acquisizioni secondo i dati Kpmg, con 179 operazioni portate a termine per una cifra complessiva di 26 miliardi di euro, pari al 55 per cento del totale. E sono straniere le cinque offerte di maggior valore.

Pirelli è diventata cinese per oltre 7 miliardi di euro, acquisita da China National Chemical Corporation. La francese Vivendi ha acquistato il 20 per cento del capitale di Telecom Italia, per un controvalore di tre miliardi di euro. Ormai sono americane Sigma Tau, Sorin, l’Icbpi (Istituto centrale banche popolari italiane), i giapponesi dell’Hitachi hanno acquistato una quota qualificata dell’Ansaldo Sts. L’Italia è un gigantesco outlet dove sono in vendita gruppi ed aziende, secondo i dati di Bureau van Dijk è abissale la sproporzione tra i 74 miliardi di euro di investimenti attirati, di contro ai 3 miliardi e 600 milioni di euro, investiti oltre confine dalle aziende italiane, un numero ben lontano dai 13 miliardi del 2011. Tra il 2010 ed il 2014 ben 825 aziende del Belpaese sono passate in mani straniere, tra queste anche prestigiosi marchi del settore “food e beverage” che insieme alla moda è la bandiera del “Made in Italy” sui mercati internazionali.

“All’estero ci sono stranieri che si impossessano dell’identità italiana, spacciandosi per degli italiani – avverte Zenti – gli stranieri amano acquistare italiano, è un problema nostro non saper cogliere le opportunità, non essere in grado di vendere.
L’Italia è tra i paesi più apprezzati al mondo. Siamo la quinta destinazione turistica mondiale, abbiamo il 70 per cento della cultura del mondo, ma non sappiamo venderci.

L’opportunità resta, c’è tuttora il treno in stazione, siamo seduti su un baule d’oro e ci lamentiamo che vengano a rubarci qualche lingotto”.
Un’analisi della sostenibilità post-acquisizione in termini di performance economiche è stata fatta da un gruppo di studiosi italiani, sul numero 98 della rivista di management Sinergie, nel 2015. Riccardo Resciniti, Gabriele Barbaresco, Giulio Maggiore e Michela Matarazzo hanno analizzato il destino di 143 imprese di medie dimensioni, del settore manifatturiero meccanico-ingegneristico e chimico farmaceutico, su dati di Mediobanca. Tra queste soltanto 79 sono rimaste attive alcuni anni dopo, ben 61 pari al 44,8 per cento sono sparite. Inoltre, 25 sono state cancellate tramite fusione, 15 dalla chiusura o dalla bancarotta, 14 da un cambio di nome a seguito di modifica della proprietà, 6 per una nuova costituzione d’impresa, 4 per altre ragioni.

L’eccezione che conferma la regola è il caso di Ruffino, marchio secolare del Chianti nel cuore della Toscana. In quattro anni, da quando a Pontassieve sono arrivati in piena proprietà gli americani della multinazionale Constellation Brands il fatturato è quasi raddoppiato raggiungendo i 90 milioni di euro, i debiti pregressi sono stati azzerati, è aumentata la produzione e ci sono state trenta nuove assunzioni.

“L’entrata di Constellation è avvenuta in un lasso di tempo molto dolce, la multinazionale aveva già il 40 per cento, poi ha acquisito la piena proprietà – afferma Emanuele Rossini hr manager Ruffino – è stato lasciato fare agli italiani ciò che sanno fare, anzi c’è stata l’esasperazione dell’italianità, con la riproposizione del fiasco per cui Ruffino era famoso. È stato un successo il rilancio di questo prodotto iconico di grande italianità, ma al tempo stesso la presenza della multinazionale ha configurato un affermato modello di meritocrazia. Si viene continuamente valutati nella propria performance, come se i soldi fossero di tasca nostra. Per i dipendenti è scomparso il saliscendi della cassa integrazione, è stata introdotta una forma mentis nuova, non solo al mondo del vino, ma anche al sistema aziendale italiano, puntando su un’italianità molto forte. L’acquisizione è stata un modello esemplare, una best practice da tenere a mente”.

“L’acquisizione ci ha portato un nuovo modo di lavorare, entrando in corporation ci siamo adeguati ad un nuovo sistema, la lean organization, con tanta innovazione in termini di prodotto, conquista di nuovi mercati ed maggiore forza commerciale all’estero – aggiunge Francesco Sorelli global brand e corporate manager Ruffino – è stato attuato il ricambio del management, in nuovi settori con l’arrivo della multinazionale. È stata un’acquisizione atipica, non siamo stati colonizzati come accaduto in altri casi. Godiamo di libertà di azione ma la corporation è presente, si attua il controllo dell’operatività day by day, abbiamo inserito una nuova metodologia operativa, accresciuto il know how. La multinazionale ha avuto la vision giusta per far prosperare il marchio come primo all’estero, inserendosi nel solco storico dell’azienda, con rispetto per la gestione dei singoli marchi”.

Non sempre accade. Da Barilla ai mercati internazionali, Gianluigi Zenti export manager, analizza la percezione del Made in Italy all’estero. “Barilla ha portato l’italianità autentica all’estero, in meno di dieci anni è diventata leader di mercato negli Stati Uniti, conquistando il 30 per cento del mercato, non si è adeguata agli standard della pasta americana da cuocere in tre minuti, andando contro il consueto paradigma del marketing, di dare al consumatore ciò che vuole – analizza Zenti – altri invece hanno adattato i loro prodotti, ai gusti del consumatore locale.

Il vero coraggio è educare a consumare un prodotto diverso, senza adattare il gusto italiano ai prodotti locali. Abbiamo sempre più prodotti commodity, cercare di adattare il prodotto al paese di destinazione è la strada più facile”. L’esempio della pasta è uno spunto per quanto accade con l‘italian sounding, Zenti ricorda che la maggior parte dei prosciutti venduti negli Usa hanno la bandiera tricolore, ma sono prodotti in Canada.

“Nel caso dell’acquisto del gruppo Carapelli-Sasso l’acquirente ha visto la possibilità di estrarre valore dal brand italiano, per vendere i propri ingredienti, grazie a quell’identità che non riescono a creare per i loro marchi – continua l’export manager – si assiste ad una grande perdita dell’identità dei prodotti italiani. Si pensi che l’Igp ed i prodotti tipici per tutelare l’identità sono arroccati dietro standard restrittivi.
Igp e Dop hanno un fatturato che vale meno dell’1 per cento in Ue, la campagna informativa europea non è servita a nulla, nessuno all’estero ha consapevolezza del significato, gli stranieri cercano di impossessarsi del valore del marchio italiano”. A tale proposito Zenti rileva come il 70 per cento del “parmesan” venduto negli Usa “non è nè Parmigiano Reggiano, nè Grana Padano”. Due le strategie, di valorizzazione commerciale del marchio in seguito all’acquisizione come avvenuto per l’acqua San Pellegrino, oppure di svuotamento dell’identità, come avvenuto a Buitoni, trasformato in marchio ombrello.

Gli anticorpi contro il rischio che le aziende italiane obiettivo di acquisto diventino gusci vuoti vanno creati all’interno stesso del tessuto produttivo nazionale.
“Essere imprenditori nel lungo periodo richiede capitani coraggiosi, con una visione lungimirante, senza pensare al profitto nel breve periodo. Pietro Barilla faceva le scelte per i suoi figli, il prodotto senza identità viene venduto ad un prezzo più basso, ora il cibo viene concepito come una moda, mentre la sua ragion d’essere è legata alla sua storia, nel futuro anche il settore food dovrà approdare nel segmento luxury, senza identità un prodotto non ha ragione di esistere, la consapevolezza è la risposta della cultura ed identità del proprio paese, quale multinazionale vende cultura se non ce l’ha in primis”, sottolinea Zenti.

La sua preoccupazione va al Ttip (Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti), che da tempo crea proteste diffuse. Il trattato liberalizza la commercializzazione di prodotti alimentari tra Stati Uniti ed Europa, unificando gli standard dei prodotti, ad esempio in Italia si potrà vendere la pasta vitaminizzata sinora proibita.
“Il trend sarà ancora più complesso, sempre più difficile competere sui mercati internazionali, perché non c’è massa critica, la strada è creare una rete di imprese vera, una parte commerciale comune che si fa carico dell’Italia spa – conclude Zenti – nelle aziende medie e mediopiccole molte hanno identità di prodotto, fino ad oggi commercializzano più dell’80 per cento del nostro paese. Serve creare reti d’impresa, avere export manager per più aziende sui mercati internazionali, per diventare efficienti nei mercati cinese e sudamericano in modo da fare più massa critica.
Il passaggio successivo è creare competenze giuste grazie alle università, trovata la ricetta servono persone che la implementino”.

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