Arte inclusiva alla Lunetta di Mantova

Troppo spesso dimentichiamo la storia. Troppo spesso andiamo a cercare soluzioni altrove, quando in realtà sarebbe sufficiente voltarsi indietro per capire quanto tutto sia ciclico e quanto il passato ritorni, riproponendosi positivamente. Nessuno inventa più nulla, non è necessario. Mi riferisco ai musei a cielo aperto che ci offre la storia. Musei visibili dall’alto in […]

Troppo spesso dimentichiamo la storia.

Troppo spesso andiamo a cercare soluzioni altrove, quando in realtà sarebbe sufficiente voltarsi indietro per capire quanto tutto sia ciclico e quanto il passato ritorni, riproponendosi positivamente. Nessuno inventa più nulla, non è necessario.

Mi riferisco ai musei a cielo aperto che ci offre la storia. Musei visibili dall’alto in basso, semplicemente alzando lo sguardo. Sono gli affreschi sui palazzi storici, musei per tutti, che avevano la funzione di abbellire le città, di raccontare la potenza di chi li commissionava e, soprattutto, di sollevare gli animi del popolo che ogni giorno aveva il piacere di ammirarli. Sono le facciate multi-color di innumerevoli edifici storici che, nel Rinascimento, abbellivano le nostre città, e di cui rimangono esempi emblematici, tra cui le facciate di Piazza delle Erbe a Verona o quelle di fronte alla cattedrale di Trento (Casa Cazuffi-Rella); o quelli di Mantova, città adottiva della lungimirante madrina del Rinascimento Isabella D’Este, donna di cultura, di intelletto e profonda amante delle arti.

Mantova fino a metà del XIV secolo era quasi integralmente dipinta, e lì si contendevano lo sguardo «le facciate cinquecentesche di Bertani e Facciotto nel Palazzo Ducale, i merli del XV secolo del Palazzo del Podestà, le campiture nel vestibolo albertiano di Sant’Andrea, per non parlare delle innumerevoli dimore patrizie del Quattro e Cinquecento delle quali oggi solo una minima parte rivela lo splendore che fu. Stemmi gentilizi, finti marmi che diventavano quasi delle tappezzerie, ordini architettonici simulati, ma anche paesaggi o scene figurate mitologiche, storiche o encomiastiche. Un universo pittorico che completava architetture che oggi paiono mutilate» (Giulio Girondi, Without Frontiers – esperienze e prospettive, Il rio edizioni, 2017).

 

L’arte inclusiva dei musei a cielo aperto: una storia antica che torna nuova

Nella logica della ciclicità della storia e dell’eterno ritorno, oggi riappaiono a dominare la scena, e dopo più di un secolo di anemia visiva, le tanto amate facciate colorate, eredi della cultura underground newyorkese, sbarcate anche in Italia dopo un lungo viaggio temporale. Un vero coup de théâtre, quello che si sta verificando in questi ultimi anni nella nostra penisola, che vede moltissime città coinvolte da questo contagioso fenomeno di rivisitazione dell’affresco, con sempre più artisti impegnati nella michelangiolesca impresa di lasciare un punto fermo nella costruzione della nuova identità delle nostre città.

Spesso ad accogliere questi nuovi musei a cielo aperto sono i quartieri di periferia, luoghi perfetti, spesso dimenticati e che hanno avuto/subito ferite architettoniche importanti. Le periferie sono le nuove culle del contemporaneo, i nuovi centri nevralgici della creatività dove nascono e germinano idee che non troverebbero spazio tra le mura storiche dei nostri centri. Lì, dove spesso venivano relegati gli emigrati (dal Sud negli anni Sessanta e dal Nord Africa e altri Paesi extra-europei negli anni Ottanta) e dove regnava il senso di incertezza e sfiducia, si sviluppa uno spirito di rinascita e un desiderio di rivincita.

Nascono veri e propri musei d’arte urbana a cielo aperto in dialogo con i centri storici: nelle grandi città – penso a San Salvario o Barriera di Milano a Torino, a Isola a Milano, nel quartiere Prenestino a Roma dove c’è il Maam (Museo dell’Altro e dell’Altrove), a Bologna in San Donato – oppure nelle città di periferia, quelle difficilmente raggiungibili dai mezzi pubblici o non coinvolte dai percorsi turistico-convenzionali, come Catanzaro, Campobasso, Ravenna e Mantova. Le periferie e i contesti di edilizia agevolata sono diventati le palestre perfette sulle quali sperimentare piani di cambiamento. Quando penso a questo fenomeno mi viene sempre in mente una frase che disse nel 1961 l’artista Claes Oldemburg:

Io sono per un’arte che faccia qualcosa di più che starsene tutto il giorno seduta in un museo. Io sono per un’arte che si mescoli alle faccende di ogni giorno, che salga alla superficie. Io sono per un’arte che vi dica che ore sono e che vi indichi dove si trova la tale strada. Io sono per un’arte che aiuti le vecchie signore ad attraversare la strada (…).

Un’arte uscita dalla crisi, quella che cavalca quest’epoca, perché ha smesso di essere autonoma a favore del connubio con la vita sociale, un’arte non più marginale ornamento perché ha smesso di scappare alla solitaria libertà dell’artista, un’arte non più temuta perché avvicinata al centro della vita sociale; un’arte viva, appunto. Un’arte che pulsa, coinvolge, pensa, parla, ascolta e in cui l’artista non abbassa le palpebre per terminare la sua opera – il che scaverebbe una distanza tra lui e il mondo – ma al contrario spalanca gli occhi immagazzinando più immagini ed emozioni possibili. Un’arte che entra nella casa delle persone e che invade i loro spazi, li rimodella e li colora. Un’arte che trasforma il tessuto urbano e umano. Un’arte che si appropria della casa altrui e ne assorbe l’«immensità intima» dove tutta la nostra esperienza trova dimora, il suo stare con se stessi, il posto in cui ripararsi e ritrovarsi. Non è un caso che questa arte si impossessi della casa e la trasformi, in quanto essa rappresenta lo spazio dove l’«intimità si rannicchia e l’anima si trastulla», e che nella vita umana dimostra di essere uno dei più potenti elementi di integrazione per i pensieri, i ricordi e i sogni dell’uomo (Simona Gavioli, Without Frontiers – esperienze e prospettive, Il rio edizioni, 2017).

 

Lunetta, il museo a cielo aperto in cui rinasce un quartiere

Tra i musei a cielo aperto che più incarnano gli ideali inclusivi e partecipativi c’è quello di Lunetta, alla periferia Nord di Mantova. Un progetto, Without Frontiers, Lunetta a colori, nato nel 2016 in concomitanza e con il supporto di Mantova Capitale della Cultura, che vede non solo la partecipazione dell’associazione Caravan SetUp e Il Cerchio e le Gocce nella costruzione del progetto artistico, ma anche le 14 associazioni riunite sotto il cappello ReteLunetta, impegnate nelle pratiche di rigenerazione, oltre all’impegno dell’Università di Brescia e del CreativeLab, in cui vengono svolte attività laboratoriali insieme ai vari attori che abitano quel luogo denso di creatività (da qui il suo nome).

All’interno del CreativeLab c’è la sede della storica Banda Città di Mantova (35 anni di attività), la StartUp ARCHE3D, il collettivo di artisti N’UOVO, e durante l’anno ci si alterna con varie associazioni per dar vita, cultura, aggregazione, valore a quel magnifico luogo di scambio che è Lunetta. Inoltre, sempre a Lunetta, c’è una biblioteca fornitissima – oltre 7000 titoli – gestita dalla associazione di volontariato Papillon e dove prestano il loro tempo persone che donano le loro competenze, la loro pazienza, il loro amore (perché è questo il motore di tutto) al quartiere, offrendo ogni giorno servizio alla comunità. In quella biblioteca giovani e meno giovani leggono i giornali, si documentano su internet, prendono in prestito un libro leggendolo al fresco di quel luogo magico che profuma di carta e di cultura (che magnifica parola, cultura).

A Lunetta c’è anche un nuovissimo Centro di Aggregazione Giovanile, dove ogni pomeriggio diversi educatori impiegano il loro tempo per far fare attività ai bimbi dai 5 ai 12 anni. Il CAG è uno dei luoghi più belli e sinceri che io abbia mai visto nella mia vita. In quelle aule c’è il futuro del nostro Paese, un futuro fatto di bimbi curiosi, vivaci, desiderosi di sapere. Li c’è la vita. Li c’è quella giusta dose di confusione, quella che fanno i bimbi quando sono felici. Quel brusio di accenti mantovano/pakistano, mantovano/brasiliano, mantovano/marocchino, e altre decine (sono 18 le etnie che vivono a Lunetta), che mi fa tremare la voce dalla gioia, perché a Lunetta le diversità sono una ricchezza, e quelle ricchezze rendono Lunetta un grande ombelico del mondo.

E poi ci sono le opere, fatte in quattro anni di attività del Festival: 34 opere d’arte che hanno cambiato la pelle di Lunetta e che hanno dato modo alle persone di conoscersi, di comunicare. L’arte parla un’unica grande lingua che è quella della bellezza. Gli artisti che fino a ora hanno ampliato l’universo visivo di Lunetta sono: Corn79, Dado, Xena – Fátima de Juan, Mrfijodor, Michele Giangrande, Mohamed L’Ghacham, Mach505, Psiko, Rash, Raul33, Telmo Miel, Etnik, Fabio Petani, Vesod, Perino & Vele, Bianco-Valente, Zedz, Made514, Panem et Circenses, Elbi Elem, Joys, Joan Aguilò, Boogie Ead, Ericailcane – Bastardilla, Molis, Peeta e Sebas Velasco.

Di fronte a un’opera d’arte non abbiamo bisogno di parlare: è l’anima che racconta e fa in modo che si inneschino delle connessioni con l’altro. Perché l’arte unisce, l’arte parla, l’arte racconta, l’arte aggrega, l’arte fa discutere. L’arte è bellezza, salvifica e al servizio della comunità: il punto di partenza per una rivoluzione inclusiva, partecipativa. Ecco come sono i nuovi musei, ed ecco che cosa fanno, coraggiosamente: costruiscono relazioni tra le persone in un momento storico in cui la bulimia digitale ci sotterra.

A Lunetta si sta attuando il cambiamento, la rivoluzione, la riappropriazione dello spazio, la ridefinizione di un’identità, di un territorio e di una comunità meravigliosa che germoglia. Proprio come il Tarassaco, che soffia libero sulla piazza Unione Europea, dipinto dall’artista bolognese DADO Ferri in omaggio a Isabella, la madre del Rinascimento che a 500 anni di distanza arriva a Lunetta e, come fece con tutta la sua corte, la riempie di arte e cultura.

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