Il nuovo guru dell’immagine è il racconto

Mai come in questo momento – un momento che dura ormai da diverso tempo – la fotografia sta vivendo un successo fuori dal normale. Se ci si mettesse a contare le mostre, i festival, i libri in uscita, c’è un’attenzione davvero impressionante nei confronti della fotografia. Una fotografia che quando viene presentata al grande pubblico (sto […]

Mai come in questo momento – un momento che dura ormai da diverso tempo – la fotografia sta vivendo un successo fuori dal normale. Se ci si mettesse a contare le mostre, i festival, i libri in uscita, c’è un’attenzione davvero impressionante nei confronti della fotografia. Una fotografia che quando viene presentata al grande pubblico (sto pensando al fenomeno di Steve Mc Curry, di Vivian Maier, di Helmut Newton o di Henri Cartier Bresson) riesce a fare dei numeri che una volta ottenevano solo i grandi pittori impressionisti. Stiamo parlando di mostre che registrano da 100 a 150.000 visitatori ogni volta e questo è abbastanza interessante perché sostanzialmente queste operazioni culturali ed espositive hanno trovato una modalità per presentarsi ad un pubblico ancora più vasto che non è più soltanto il pubblico di nicchia degli appassionati della fotografia, ma un pubblico finalmente più vasto. Questo accade perché finalmente chi si occupa di queste realtà espositive ha iniziato finalmente a raccontare delle storie. Quando si visita la mostra di Vivian Maier o la mostra di Steve Mc Curry, non si è più davanti a una semplice mostra, ma si va a conoscere le storie che ci sono intorno a queste immagini, perché c’è uno svelamento.

La dimensione tecnica è completamente scomparsa dagli orizzonti oppositivi culturali. Il visitatore va a una mostra perché finalmente c’è il racconto delle immagini. Mostre spesso “molto allestite” o molto raccontate: è questo che avvicina davvero il pubblico all’arte. 

Modelli che vengono da lontano

E’ una storia che arriva da lontano ma che mi viene da dire che sia un’esperienza mutuata dal grande lavoro che hanno fatto i musei londinesi. Sto pensando alla Tate, sto pensando alle mostre del MoMA, sto pensando addirittura alla mostra sui Rolling Stones allestita alla Saatchi di Londra o a quella su David Bowie ed è evidente che se le mostre non le allestisci così, diventa un lavoro sterile. Sono queste, mostre che ti consentono di vivere un’esperienza che ha a che fare con tutti i sensi: con gli odori, con i suoni oltre che naturalmente con la vista. Si potrebbe dire che sono mostre che provengono da altri generi: quelli legati alla scienza, alla natura; quel tipo di esperienza per intenderci che ha sempre conquistato per esempio il pubblico dei bambini. Un tipo di esposizione non più così fredda nella quale molti di noi spesso si sono trovati in posti dove non c’erano nemmeno i cartellini, visitando luoghi in cui qualcosa ci piaceva, qualcosa non ci piaceva ma non capivi perché. Questa nuova modalità ha fatto si che si alimentino le passioni e di conseguenza si alimenta poi l’indotto: il pubblico compra i libri e compra i cataloghi perché ritrova gli stessi apparati critici che fanno riferimento alla mostra che hanno visitato.

Una chiarezza di percorso

I curatori si sono dimenticati per troppo tempo di suggerire un percorso espositivo. Eppure le mostre – se non sono mostre blockbuster – vengono create o progettate per essere allestite in uno spazio espositivo e sulla base di questo spazio va creato un percorso ideale, bisogna saper offrire quelle informazioni a seconda degli elementi che decidi di posizionare lungo questo percorso ma anche di fruizione delle opere proposte, pur nel pieno rispetto del rigore delle scelte dell’autore. Questo non esclude dunque l’uso di serigrafie, di proiezioni, di riproduzioni anche se l’autore sta lavorando con delle miniature, ma è importante che queste possano essere visibili, che si dia risalto anche al dettaglio usando materiali e media diversi. Spesso bisogna avere il coraggio di cambiare i punti di vista.

Nella recente mostra dedicata a Henri Cartier Bresson, dove il percorso doveva originariamente coincidere con quello del libro “Henri Cartier Bresson – fotografo” in cui le foto erano state scelte personalmente dal fotografo insieme a Robert Delpir, ci si è resi conto che quel percorso aveva dei limiti di traduzione, di lettura. In quel caso, seppure nel pieno rispetto delle scelte, è stato necessario rivedere il percorso e dargli un taglio differente, guardare la mostra dal punto di vista geografico raccontando come Cartier Bresson vedeva i luoghi e leggeva le situazioni collegandole fra di loro.

Se non hai le stanze, le devi costruire!

Oggi quando si allestisce una mostra fotografica si parte dal dettaglio ma si finisce per ricostruire tutto lo spazio fisico che deve ospitarle. Con Ferdinando Scianna stiamo progettando una mostra che avrà un percorso fatto a stanze. Ma se tu non hai le stanze, le devi ricostruire. All’interno dei percorsi espositivi i curatori si devono ricordare che lavorano all’interno di percorsi fisici perché le immagini non le vedi soltanto con gli occhi, ma le vedi con tutto il tuo corpo. Maurizio Galimberti dice “io a volte vedo delle fotografie, mi viene voglia di mangiarle!”

L’importanza del marketing e della comunicazione

La fisicità è fondamentale anche dal punto di vista del marketing culturale. Quando hai come competitor la Biennale di Venezia, diventa fondamentale trovare delle modalità espositive nuove da raccontare alla stampa che siano realmente interessanti e notiziabili. Mi viene da pensare a David Lachapelle che ha girato recentemente uno spot per Diesel dove il claim è “fate l’amore non costruite i muri“. Nello spot si vede un carrarmato a dimensione naturale (che sfonda un muro scoprendo una breccia a forma di cuore) che verrà poi esposto in tutte le vetrine di Diesel.

Quel carrarmato vorrei che venisse portato di fronte alla Casa dei Tre Oci il Museo di Venezia dovrà sarà allestita la prossima mostra di David, dove le pareti delle sale avranno gli stessi colori del carrarmato, un gioco di incastri che diventa un racconto completo delle attività  e una serie di link a cui il visitatore viene non solo sovra-sollecitato, ma viene accompagnato nel percorso completo dell’artista.

Immagine e pubblicità: i progetti Corporate

Il racconto diventa straordinariamente importante anche quando si parla di pubblicità. O meglio, di produzioni pubblicitarie.  Perché di vera pubblicità mi sembra se ne faccia sempre meno. Si usano molte immagini di archivio e anche la creatività è diventata molto ripetitiva e standardizzata. Oserei dire “tabellare”. Una pubblicità che fa il verso a se stessa, una fissità e un immobilismo nella produzione delle immagini soprattutto nel comparto della moda, oggi il più generoso in termini di investimenti, dove mi pare che il termine di novità – a mio avviso poco credibile – consista nel proporre immagini “fuori dagli schemi”, certi tuttavia come siamo, che la fotografia è il risultato di una messa in scena.

Sta invece emergendo un settore molto interessante, legato ai progetti Corporate con l’esigenza di raccontare al meglio la storia delle aziende incontrando progetti culturali, a volte artistici. Sono questi che mi affascinano molto sia come spettatore che dal punto di vista professionale.

Con la consapevolezza che l’apertura di un nuovo negozio non sia un evento così notiziabile, attraverso 25 fotografie preziosissime (come dei gioielli) scattate da fotografe famose (Diane Arbus, Linda McCartney, Annie Leibovitz, Vivian Maier fra tutte.) che hanno immortalato storie americane presentate come dei gioielli all’interno di un percorso espositivo aperto al pubblico, Tiffany è riuscita a rendere “racconto” un’operazione commerciale e al tempo stesso a promuovere un evento culturale di qualità per il pubblico e di comunicazione per i giornalisti.

Visuale contro Testo – mappe concettuali e archivi storici

Lavoro sempre più spesso con le  mappe concettuali con testi molto sintetici e l’uso di immagini simboliche che non è detto che siano quelle che poi io usi nel progetto finale, ma che mi consentono di aprire delle finestre sul mondo che mi consentono di guardare oltre. L’efficacia delle immagini è molto più impressivo e rimane molto più efficacemente nella memoria. Non per niente un trend da osservare, insieme a quello già osservato in cui le aziende prediligono il racconto, è quello di valorizzare quel patrimonio archivistico e tutta la memoria che le aziende conservavano in maniera distratta. C’è un processo di sistemazione degli archivi che io trovo molto affascinante e che cominciamo a ritrovare all’interno delle fondazioni, dei musei aziendali, degli spazi aziendali predisposti proprio a questo utilizzo.

“Lei non è un fotografo!”

Ma a fronte di tutto questo è importante sottolineare che quando parliamo del concetto di fotografia è importante stabilire un lessico, perché la fotografia ne ha uno molto specifico. Designer, architetti, professionisti di vari settori, artisti contemporanei  sentono il forte desiderio di entrare nello stato della fotografia pur non possedendo e non conoscendone il lessico. “Lei non è un fotografo” non è un insulto. E’ una constatazione. Per chiamarsi “fotografo”, un po’ come immagino in tutte le professioni, occorrono degli strumenti di conoscenza storica oltre che critica che non possono essere improvvisati.

Una foto con un telefonino è una foto con il telefonino. Il tema dell’originalità è lasciato un po’ a se stesso. Ci sono delle foto che io vedo sui social che trovo straordinarie, ma a me interessano le storie, non i singoli scatti. Non è difficile vedere una buona fotografia, ma oggi voglio vedere come viene raccontata una storia. Ed è difficile vedere le storie non perché nessuno le racconta, ma perché non esistono più i contenitori che le pubblicano.

Più contenitori, meno guru.

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