Aziende che corrono senza Confindustria

La crisi ha raggiunto anche Confindustria. L’ultimo tentativo di sopravvivenza è stato lanciato nel 2012 (ma ancora ben lungi da essere portato a compimento nell’A.d. 2015…), quando a livello nazionale è partito un progetto di accorpamento di molti uffici provinciali mascherato da aria di rinnovamento, ma che di fatto tende a nascondere da una parte le difficoltà […]

La crisi ha raggiunto anche Confindustria.

L’ultimo tentativo di sopravvivenza è stato lanciato nel 2012 (ma ancora ben lungi da essere portato a compimento nell’A.d. 2015…), quando a livello nazionale è partito un progetto di accorpamento di molti uffici provinciali mascherato da aria di rinnovamento, ma che di fatto tende a nascondere da una parte le difficoltà economiche di un sistema che non può più garantire stipendi a cinque zeri ai suoi Presidenti, dall’altra una evidente sfiducia in un’organizzazione sempre più politicizzata che non solo non è mai stata di alcun supporto alle migliaia di aziende colpite dalla crisi (quella vera), ma in alcuni casi ha visto i suoi dirigenti (vedi Merloni – Indesit) fra gli strateghi di scelte fallimentari dopo anni di arricchimenti personali e svuotamenti industriali.

Questo ha naturalmente portato a un’emorragia di iscrizioni che ne ha decretato l’iniziale azzoppamento, testimoniata dal bilancio ufficiale del 2012 pubblicato dal Fatto Quotidiano e che consiglio caldamente di leggere per spirito di oggettività nella completezza delle sue 62 pagine illuminanti. Emergono dati che confermano una allarmante situazione economica: un calo dell’8% delle iscrizioni annue rispetto all’anno precedente su scala nazionale e un 57% di morosità degli associati. E’ evidente che di fronte alla perdita di più della metà delle (esose) quote associative, il sistema non riesce più a stare in piedi.

Per “par condicio” informativa è possibile leggere la riforma del sistema Confindustriale dal sito ufficiale dell’Associazione: una supercazzola elaborata dal solito addetto stampa  a confronto del quale, i graffiti cavernicoli sono una best practice comunicativa.

Si parla di nuovi modelli di governance, si esulta alla prima riforma Confindustriale degli ultimi 100 anni (pensa quanto gli deve rodere, erano già pronti per il Guinness dei Primati categoria Staticità Totale), si aspira a una vocazione europea e internazionale (non bastava internazionale? O l’Europa è già considerata da Confindustria una colonia Italiana?), si inneggia ad una nuova vision, mission, e codice etico (questo non deve mancare mai, salvo essere sempre al fianco di Presidente di Regione inquisiti, o avere nel palmares dei propri Presidenti dei casi di successo come la Marcegaglia il cui gruppo industriale è fra i più citati nelle hits dei Tribunali Italiani: fondi neri, smaltimento di rifiuti tossici, falso in bilancio.)

Fiat, Cartiere Pigna, Nero Giardini, Riello, Honda, Maserati, Ferrari, CNH tutti i colossi della Nautica sono solo alcuni dei brand usciti da Confindustria fra il 2012 e il 2013. La rappresentanza del Made in Italy di maggior impatto non sente il bisogno di farsi tutelare da Confindustria. A livello più locale l’emorragia è altrettanto inarrestabile.

E’ un dato di fatto che Confindustria abbia aspettato troppo tempo per rinnovarsi e trovare nuove leve di fidelizzazione per i suoi iscritti. Scegliere di puntare sui figli di papà Audi-muniti (o Giovani di Confindustria, come amano farsi chiamare) anziché sui nuovi attori industriali (piccole aziende innovative, incubatori, realtà emergenti) non ha rinnovato la base associativa, ne ha solo perpetrato la stessa razza, ormai sfinita e sterilizzata.

Diversamente hanno fatto gli imprenditori più attivi, quelli che hanno scelto di sopravvivere alla crisi, che sono rimasti con le orecchie aperte ad ascoltare cosa succedesse fuori da quei palazzi. Quelli che hanno iniziato a esportare all’estero senza l’aiuto di Confindustria e hanno fatto sapere ad altri che era possibile, anzi, forse più semplice; quelli che hanno iniziato a fare formazione finanziata senza COSEFI, SFC e tutte le sigle e le business school create ad hoc, ed hanno scoperto sistemi veloci, una burocrazia più snella, costi più accessibili.

Ma soprattutto chi ha capito che la lobby confindustriale tutela pochi, con i soldi di tutti.

In meno di due anni si è scardinato il concetto secondo il quale “senza Confindustria non si può…”. Il sistema di relazioni è stato completamente sovvertito dalla necessità di fare rete, laddove soprattutto nelle Regioni più piccole tutti si conoscono e non hanno bisogno di intermediari. Nelle Regioni più grandi il facile accesso fra le Persone tramite i canali digitali e con il supporto delle piccole organizzazioni autonome (su tutte Assorete PMI, FiordiRisorse, i Club della Qualità, i PM Institute, i ClubIn..) che hanno messo in relazione le aziende con le Persone, stanno mettendo in crisi il sistema Associazionistico se non fosse altro per la velocità di organizzazione, per la gratuità degli interventi, per i fini e gli scopi: non politicizzati e orientati al business comune.

Il valore del network e della condivisione di pratiche (ma anche di fallimenti, utili a non ripetersi e a misurare le proprie organizzazioni) sono alla base dei nuovi sistemi relazionali, ben al di sopra delle Associazioni di Categoria e al di sotto delle vere lobby di potere, inaccessibili per la stragrande maggioranza delle imprese italiane. Le aziende stanno imparando ad aprire le proprie porte e a fare “employer branding” attraverso la comunicazione uno-a-molti. I comunicati stampa degli Amministratori Delegati e i fondi del Sole24Ore hanno la stessa credibilità di una banconota da 1030lire. Le Persone sanno a chi chiedere conferma di certe notizie, di certe informazioni, di certe “voci di corridoio”, con la stessa facilità con cui ci si informa dell’affidabilità di uno smartphone o di un frigorifero.

E tutto questo, Confindustria non lo può più controllare.

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