Fuori l’uno, entra l’altro

Quanto è difficile staccare dal proprio lavoro, quanto è difficile delegare il proprio lavoro ad altri e quanto è difficile farsi sostituire. Nella nostra vita lavorativa, per i più disparati motivi, possiamo trovarci nelle condizioni di doverci far sostituire, dal banale periodo delle ferie a sostituzioni più lunghe per motivi di vita (salute, maternità, accudimento […]

Quanto è difficile staccare dal proprio lavoro, quanto è difficile delegare il proprio lavoro ad altri e quanto è difficile farsi sostituire. Nella nostra vita lavorativa, per i più disparati motivi, possiamo trovarci nelle condizioni di doverci far sostituire, dal banale periodo delle ferie a sostituzioni più lunghe per motivi di vita (salute, maternità, accudimento altrui, studio) fino al momento dell’uscita dal mondo del lavoro.

C’è una inerzia in noi che ci porta a rimandare questi momenti, a comunicare il più tardi possibile e a delegare o istruire all’ultimo momento. Perché procrastiniamo? Perché evitiamo o lasciamo ad altri questa incombenza pur di non volerla affrontare?

La psicologia prova a dare una risposta a livello soggettivo a questo fenomeno, proviamo a vedere dunque cosa si muove dentro di noi rispetto ai ruoli che assumiamo nel nostro lavoro e come li sviluppiamo e viviamo.

Sono/faccio

Un primo aspetto che vi propongo nella comprensione del ruolo ha a che fare con l’identità. Il nostro Sé, ovvero la rappresentazione che abbiamo di noi stessi in forma coordinata e consapevole, è composto da diversi aspetti. Già uno dei più grandi psicologi statunitensi dei primi del novecento, William James, aveva individuato caratteristiche peculiari della nostra identità che riguardano sostanzialmente le seguenti dimensioni:

il corpo e le cose che mi appartengono e che includo nel mio spazio fisico personale, come l’auto, quando guido, la mia scrivania, il mio computer con le sue personalizzazioni, il mio spazio lavorativo;

– i miei pensieri, i miei atteggiamenti e opinioni, le idee che ho di me in quanto persona, i valori di cui sono portatore;

– i ruoli, ovvero la dimensione esterna e sociale: l’essere un padre o una madre, l’essere single, l’essere uomo o donna, l’essere un impiegato, un manager, un operaio, un supervisore, un neoassunto;

– le appartenenze: ovvero quella parte di me che mi definisce in quanto membro di un particolare gruppo sociale, come essere iscritto a un ordine professionale, oppure a un sindacato, l’essere parte di un certo settore organizzativo (sono dell’ufficio vendite, sono dell’amministrazione, sono della produzione), l’essere dipendente di una certa organizzazione.

Tutti questi aspetti si integrano nel mio senso di me stesso e vanno a formare una idea coerente e integrata di me, che mi orienta nei miei comportamenti.

Da qui l’importanza dell’«essere» o del «fare» nel momento in cui definisco e descrivo il mio lavoro e il mio ruolo: «sono un manager» o «faccio il manager» nascondono infatti concezioni più o meno interne e integrate di noi.

Nel primo caso identifico una parte del concetto di me stesso con il ruolo, dall’altra invece no. Fare qualcosa non significa essere qualcosa, questo è evidente. Se partiamo da questa considerazione e dal livello in cui il mio ruolo e il mio lavoro sono integrati nell’idea di me stesso/me stessa, allora potremo ben capire come una sostituzione sia ben di più di quanto potrebbe apparire dall’esterno. Una sostituzione di un ruolo non diventa infatti, nel caso dell’«essere», un semplice mandato di consegne, al fine di poterlo portare avanti al meglio e in continuità secondo l’ottica dell’organizzazione, ma diventa un processo interno di ristrutturazione di una parte di me stesso che mi trovo a dover riconsiderare e integrare nell’immagine che ho di me.

Un ruolo lavorativo non si esegue soltanto, ma molto spesso si assume, e l’assunzione di un ruolo implica un processo di adattamento delle proprie aspettative alle aspettative del ruolo, così come sono state concepite dall’organizzazione nella definizione del mansionario e della funzione; significa integrare e adattarsi ad esse in modo proattivo, per poi trovare un equilibrio e una stabilità che mi permettono di lavorare secondo una mia interpretazione il più possibile funzionale del ruolo attribuitomi organizzativamente [Nicholson 1987].

Queste considerazioni possono anche farci comprendere come, a volte, queste dinamiche non sono affatto fluide e fatichiamo ad assumere ruoli nuovi, proprio perché l’incontro tra l’idea di noi stessi, delle nostre capacità e le aspettative di ruolo non avviene in modo funzionale e le due dimensioni divengono incompatibili. Quando questo succede abbiamo reazioni che possono andare verso la regressione del ruolo, ovvero ritorno a ruoli precedenti: se da quadro divento dirigente, ma non riesco ad assumere il ruolo di dirigente, allora posso, come capita non di rado nelle organizzazioni, continuare a fare le cose da quadro nel ruolo di dirigente, oppure mi limiterò al «fare», eseguendo in modo distaccato e burocratizzato quando previsto dal ruolo organizzativo, ma non «sarò» mai un dirigente.

Staccare, delegare, insegnare, sostituire

In questi termini, la sostituzione in un ruolo non è dunque un semplice processo di passaggio di consegne, un insieme di informazioni da fornire a chi viene dopo di me e al posto mio. Se fossimo orientati unicamente al «fare» e non all’«essere» allora potremmo pensare che sia così, se invece entra in gioco l’«essere» allora il passaggio si fa più complesso.

Per chi è coinvolto nell’essere sostituito significa mettere in conto un dover pensarsi diversamente e ciò comporta un rendere salienti o significative altre parti di sé non legate al ruolo che non svolgerà per un certo periodo di tempo, per chi sostituisce si innesca un processo analogo, in cui una parte nuova viene a inserirsi nel suo Sé, nella propria autorappresentazione, fatta di nuovi compiti, nuove appartenenze, nuovi strumenti e, a volte, nuovi luoghi (cambio di postazione, cambio di ufficio, cambio di gruppo).

L’insegnamento che comporta una sostituzione significa veicolare informazioni e modi di vedere e interpretare il proprio ruolo e lo staccare che comporta l’essere sostituiti significa infine rivedersi diversamente.

Questo processo può essere più o meno profondo, a seconda anche del livello di identificazione che abbiamo con il nostro ruolo lavorativo. In questo caso «fare» ed «essere» li possiamo considerare due poli estremi di un continuum in cui l’«essere» appartiene alla massima identificazione nel ruolo e il «fare» alla minima identificazione nel ruolo.

A maggior ragione, staccarsi da un ruolo diventa un processo complesso di ristrutturazione della propria identità, tanto più quando questo distacco definitivo deriva dal decidere di andare in pensione [Sarchielli e Fraccaroli 2015].

Che fare dunque?

A livello organizzativo, considerare le sostituzioni anche da questo punto di vista soggettivo significa tempo e programmazione. Sostituire una persona comporta lasciare tempo a chi sostituisce e a chi viene sostituito di confrontarsi rispetto al ruolo, di considerare le aspettative di entrambi e al tempo stesso imparare ciascuno dall’altro a fidarsi. Questo processo può essere agevolato anche dal coinvolgimento di chi viene sostituito nello scegliere il proprio sostituito. Coinvolgimento, non delega totale.

A livello individuale, diviene importante prendere consapevolezza che la chiusura di un ruolo comporta un modo di pensarsi differente, aiuta in questo caso ipotizzare alternative di sé rispetto al futuro prossimo in cui si assumeremo altri e nuovi ruoli.

Quanto più i ruoli sono chiari, quanto più sono definite le aspettative di comportamento, le competenze necessarie, le risorse richieste, gli obiettivi attribuiti al ruolo, i confini rappresentati da altri ruoli, tanto più questo processo può avvenire a mio avviso in modo lineare e integrato, e facilitare anche l’«essere» un certo ruolo con tutti gli apporti di creatività e di interpretazione che ne favoriranno lo svolgimento e, soprattutto, lo sviluppo per il gruppo e l’organizzazione.

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