Negli anni in cui sono stato Presidente della sezione italiana di Amnesty International ho avuto la bella opportunità di girare per tutto il nostro Paese. Partecipavo a iniziative pubbliche realizzate dai gruppi di volontari, a margine delle quali, com’è naturale, ci si prendeva del tempo per discutere su come andavano le cose nell’organizzazione. Quando gli […]
Ci sono davvero troppe generazioni in azienda?
“Mio figlio diciottenne l’altra sera doveva andare a una festa di amici un po’ più formale del solito. Per la prima volta, quindi, voleva mettersi la cravatta. Non c’è problema gli dico io, vieni qui che ti insegno a fare il nodo. Lui si mette a ridere e sai cosa mi risponde? Ma no dai, […]
“Mio figlio diciottenne l’altra sera doveva andare a una festa di amici un po’ più formale del solito. Per la prima volta, quindi, voleva mettersi la cravatta. Non c’è problema gli dico io, vieni qui che ti insegno a fare il nodo. Lui si mette a ridere e sai cosa mi risponde? Ma no dai, papà, vado a vedere su YouTube, lì sono più aggiornati”.
Il padre che fa questo racconto non è un attempato nonnino lontanissimo dal mondo dei giovani, è un brillante 45enne direttore di una società di consulenza sulle risorse umane. “Lo vedo nelle aziende”, spiega, “i giovani spesso non si fidano dell’esperienza degli anziani, per loro la comunicazione è solo visiva, mediata dallo schermo di uno smartphone”.
È questo il problema (e non il solo) della compresenza oggi in azienda di quattro generazioni, che diventeranno cinque nel 2030 quando arriverà anche la Generazione α dei nati dopo il 2010. Si parla cioè troppo di tutoraggio, di reverse mentoring, di collaborazione virtuosa giovani-anziani: tu mi trasferisci la tua esperienza e io ti insegno l’uso delle tecnologie. Sono formule, sono pannicelli che spesso neanche riscaldano il clima aziendale: se c’è sfiducia reciproca, il conflitto è l’esito.
I più attempati sono i Baby boomers, nati tra il ’46 e il ’64, costituiscono lo zoccolo duro dei vertici aziendali, sono idealisti ma cercano lo status, inseguono il consenso con un atteggiamento democratico, amano i report pieni di dati ed evitano i conflitti.
I membri dell’X generation oggi hanno tra i 36 e i 51 anni e si sentono schiacciati tra i Baby boomers e la generazione successiva, quindi in azienda lottano per affermare il loro ruolo muovendosi con un approccio scettico e realistico. Si focalizzano sul breve termine e hanno un forte spirito di adattamento.
La Generazione Y, i cosiddetti Millenials, venuti al mondo tra l’81 e il ’95, sono nativi digitali e multitasking, cercano il divertimento nello sviluppo personale, sono un po’ superficiali e vogliono dirigersi da soli, puntano sull’innovatività per superare le gerarchie.
I nati tra il ’96 e il 2010 hanno solo piccole avanguardie già presenti in azienda. Per seguire l’ordine alfabetico, molti li definiscono Generazione Z, ma sono più inquadrabili come Mobile generation, o C generation, C come connessa. Secondo un sondaggio del Wall Street Journal Europe, condotto su questo pubblico di giovanissimi, andrebbero definiti come i “Ragazzi dai 5 schermi”, visto che comunicano tra loro solo con WhatsApp, Instagram, Twitter, Facebook e Skype. E soprattutto considerano l’utilizzo di Pc e l’invio di email come una cosa da antidiluvio: “È come mettersi la cravatta”, dice un interpellato.
Un altro studio, questa volta di Ricoh Europe, ha sondato i Mobiles su come si immaginano nel lavoro. Uno su tre ci vede qualcosa di molto idealistico: “Sono attratto da aziende in cui possa avere la sensazione di fare la differenza per il mondo”. E il 65% si sente un rivoluzionario rispetto alle cariatidi oggi presenti in azienda: “Introdurrò nelle imprese metodi di lavoro innovativi”. C’è anche però un 55% di autocritici coscienti di esaurirsi nella comunicazione virtuale: “Dovrò impegnarmi per migliorare nelle comunicazioni faccia a faccia”.
Insomma, quattro generazioni in azienda che devono per forza andare incontro a frizioni. Secondo l’indagine “Workforce view in Europe” di Adp, multinazionale di servizi per le risorse umane, sembra proprio di sì. Sondando l’atteggiamento verso il lavoro di 11.257 lavoratori, conclude che due dipendenti europei su tre hanno sperimentato conflitti intergenerazionali sul posto di lavoro, con gli italiani che toccano addirittura quota 77%.
Tuttavia secondo Paolo Iacci, vicepresidente dell’associazione di direttori del personale Aidp, il conflitto in azienda che contrappone soprattutto i più giovani dei Millenials e le avanguardie dei Mobiles alle altre generazioni ha radici più profonde e non si risolve con il reverse mentoring. “Nelle imprese”, sostiene, “c’è una crisi di credibilità generalizzata verso i vertici e i capi intermedi.
Così il conflitto generazionale va inserito in un contesto di mancanza di fiducia e di spaesamento che in Italia riguarda tutta la classe dirigente. In azienda molti giovani non credono perché hanno davanti persone che non credono. Difficile capire come possano infatti aver fiducia nei capi e nei colleghi anziani se quegli stessi non fanno altro che lamentarsi, dire che niente va bene.
Nessuno ci mette la faccia, non solo i dirigenti, anche i capetti. Nessuno cioè si prende la responsabilità della sua posizione, di dire cosa va fatto e come va fatto: ho l’esperienza e ci metto la faccia. Insomma, la scuola dei mestieri dove l’anziano insegna al giovane va anche bene, ma resta una formuletta che non risolve il problema. Il conflitto generazionale si supera solo dando ai giovani fiducia ed esempi. Il posto di lavoro deve diventare un luogo dove ci si diverte e, di conseguenza, ci si identifica”.
In questo quadro, quando in azienda si formano gruppi di lavoro, occorre realizzarli con criteri più pensati che non i semplici dualismi giovane-anziano, discepolo-mentore. Il problema è stato studiato da Piercarlo Ceccarelli, fondatore della società omonima di consulenza direzionale. “La prima alternativa è che i componenti del team appartengano a una sola generazione. Il vantaggio è la possibilità di massima efficienza dovuta alla comunanza di valori che abbassa notevolmente la probabilità di conflitti. Per contro il pericolo è quello dell’inefficacia se l’obiettivo è incoerente con le caratteristiche comuni dei componenti del gruppo, con in più la mancanza di innovazione se ci sono solo senior, oppure la perdita di esperienza quando si tratta esclusivamente di giovani”.
Meglio quindi i team intergenerazionali? “In quel caso ci si può aspettare un maggior potenziale creativo, ma c’è il rischio della mediocrità se il risultato è un compromesso tra posizioni troppo diverse, e dell’inefficienza causata dai tempi lunghi necessari alla comprensione interna”.
Come si fa si sbaglia, allora? “Un compromesso può essere quello di mettere insieme generazioni non troppo distanti che potrebbero così risultare più compatibili e quindi rendere più efficiente il gruppo. Anche qui però c’è il rischio inefficacia se l’obiettivo non è allineato con le caratteristiche dei due gruppi”.
Tutto ciò quando in azienda i Mobiles sono per ora arrivati solo tra i colletti blu e mentre i lavoratori più anziani, che hanno appena imparato a padroneggiare Facebook, devono attendersi d’esser di nuovo spiazzati dai baby Z, i quali iniziano a considerare il social di Zuckerberg come una “roba da vecchi”.
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