Gli italiani sanno produrre usando meno risorse degli europei

La sostenibilità aiuta l’export, forse. Il senso comune sull’economia “green” afferma a gran voce che l’ambiente in senso lato è una delle leve di sviluppo dell’economia italiana – alcuni arrivano a dire la principale – ma si dovrebbe andare più in profondità per analizzare il fenomeno. Magari facendo il processo inverso a quello che si fa […]

La sostenibilità aiuta l’export, forse. Il senso comune sull’economia “green” afferma a gran voce che l’ambiente in senso lato è una delle leve di sviluppo dell’economia italiana – alcuni arrivano a dire la principale – ma si dovrebbe andare più in profondità per analizzare il fenomeno. Magari facendo il processo inverso a quello che si fa di solito, ossia partendo dai mercati e non dai prodotti.

Esiste dunque a livello mondiale un mercato “green”? E, se si, di che proporzione? Bisogna fare prima di tutto delle differenze. Per esempio chiediamoci se tutto il settore industriale legato all’efficienza energetica è da considerarsi guidato dal “green” oppure no? La cosa non è banale se si pensa che nel rapporto GreenItaly 2014, redatto dalla Fondazione Symbola, l’efficienza energetica è uno dei driver principali per l’industria italiana. Prendiamo per esempio le emissioni climalteranti rapportata al valore dei prodotti. L’Italia, in quanto a emissioni, è al secondo posto, dopo la Francia che però ricorre al nucleare, con la Germania, nostro grande antagonista in Europa sul fronte della manifattura, che è all’ultimo posto. Il Bel Paese, infatti, nel 2011 ha emesso 98,5 tonnellate di anidride carbonica equivalente per ogni milione di euro prodotto, contro le 134,2 della Germania e le 128,6 dell’Unione europea. E il trend dimostra che si tratta di un processo di riduzione in corso visto che nel 2008 le tonnellate di anidride carbonica erano 111,4 per l’Italia, 146,6 per la Germania e 141,3 per l’Unione europea. Questo per quanto riguarda le emissioni/energia, ma i risultati sono ancora più interessanti se si guarda ai rifiuti. Nel 2012, siamo stati i migliori in Europa per tonnellate di rifiuti per ogni milione di euro prodotto. Ne abbiamo immesse, infatti, 40,1 contro i 65,2 della Germania e gli 89,9 dell’Unione europea.

Quindi sappiamo produrre impiegando meno risorse degli altri paesi europei, ma vale la pena chiedersi qual è il driver che guida questo processo. Di sicuro non quello ambientale nostrano. Se si guarda al passato, infatti, si nota che una serie di innovazioni che oggi guardano all’ecologia sono state fatte quando l’ambiente non era una priorità, oppure sotto la spinta della legislazione europea. Il riciclo degli oli minerali usati, per esempio, è stato sviluppato in Italia negli anni sessanta, mentre il primo cogeneratore di serie al mondo, il Totem, nacque in casa Fiat dopo il primo shock petrolifero del 1972. Mentre per quanto riguarda la mobilità sarebbe bene ricordarsi che solo trent’anni fa la legislazione Usa, per quanto riguarda le emissioni delle autovetture, era ben più severa della nostra.

Del resto, per non andare troppo in là negli anni, basta ricordarsi ciò che sosteneva Pasquale Pistorio a proposito dell’applicazione dell’efficienza energetica in Sgs: «Prima che una questione ambientale, l’efficienza è una questione economica, di buona conduzione d’impresa». Detto ciò è quindi utile separare i comportamenti delle imprese, per poterne analizzare a fondo le dinamiche industriali, e tarare le politiche industriali, se per caso dovesse capitare che il nostro Paese voglia metterne in campo qualcuna, tra quelli improntati all’efficienza per guadagnare competitività e quelli che sono alla ricerca di un’efficienza ecologica che sia anche di sistema e riguardi l’ambiente.

Sia chiaro che la riduzione delle emissioni climalteranti per motivi d’efficienza di processo è comunque positiva anche se deve essere distinta dalla eco-efficienza, perché tenendo conto solo di quest’ultima potrebbe venire meno la sostenibilità, quella definita nel 1987 nel rapporto Brundtland, nel quale si definiscono i tre capisaldi dello sviluppo sostenibile: ambientale, sociale ed economico. Un’impresa, per esempio, potrebbe essere attenta a emettere meno emissioni climalteranti, avendo migliori risultati economici, dovuti anche all’utilizzo di meno risorse, il tutto magari con l’aumento del tasso d’automazione e quindi cancellando posti di lavoro. Oppure potrebbe aumentare l’acquisto di semilavorati da zone del mondo dove la legislazione su ambiente e lavoro è più carente ed ecco che in entrambi i casi verrebbe a cadere la sostenibilità propriamente detta.

Ciò detto, però, il know how della sostenibilità le aziende italiane lo possiedono, in una delle due modalità che abbiamo descritto ed è ciò che il mercato, oggi, richiede. Prendiamo per esempio quello asiatico. In Asia abbiamo delle dimensioni difficili da comprendere. India e Cina fanno circa 2,6 miliardi d’abitanti e con una platea potenziale di questo tipo anche delle percentuali basse diventano numeri significativi. Pochi watt di consumo sui sistemi di condizionamento diventano facilmente centinaia di megawatt che si possono risparmiare con le nostre tecnologie. Cosa dire invece dell’alimentazione a gas naturale degli automezzi, campo nel quale siamo ai primi posti nel mondo? Oppure ancora nel riciclo degli oli usati, pratica che abbiamo esportato in Cina.

Il problema, però, sono le dimensioni di scala. Se da un lato, infatti, il nostro export si sta rafforzando, specialmente per quei prodotti e quegli impianti che riescono a “fare di più con meno”, la dimensione delle imprese italiane è ancora troppo piccola per reggere mercati imponenti come quelli asiatici o delle due Americhe. E oltre a ciò le imprese italiane non possono contare su un mercato interno per svilupparsi al meglio visto che i nostri governi non investono, a livello di politiche industriali, sulla sostenibilità, cosa che sta facendo un paese meno virtuoso quale la Germania. I tedeschi, infatti, non hanno staccato la spina di colpo agli incentivi alle rinnovabili, ma hanno disegnato delle road map che porteranno in alcuni anni all’azzeramento dell’incentivazione, consentendo alle imprese di adeguarsi e allo stesso tempo hanno rafforzato tutto il lato ricerca sulla sostenibilità, consci del fatto che le nazioni asiatiche anche se riusciranno a colmare il gap produttivo, difficilmente riusciranno a colmare quello in materia di ricerca e sviluppo, specialmente se chi è in pole position continua a investire. Da noi, invece, il mercato interno viene “depresso” sistematicamente, come quello dell’efficienza energetica in edilizia – altro settore nel quale siamo all’avanguardia – dal “tira e molla” annuale dell’ecobonus. Altro che road map. Per non parlare della ricerca che in linea di massima è interdetta alle Pmi per questioni di scala, mentre quella pubblica subisce tagli e blocco del turn over dei ricercatori.

Un vero peccato perché sono oltre 67 mila le imprese che investono in sostenibilità ed esportano sono state nel 2014, secondo la Fondazione Symbola, oltre 67mila e hanno assunto 245mila addetti. Un patrimonio industriale che senza certezze sul mercato interno difficilmente riuscirà a reggere la concorrenza degli Usa e della Germania, nonostante la posizione di leadership tenuta per ora in molti settori.

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